I

VITA DI GIOVAMBATTISTA VICO
SCRITTA DA SE MEDESIMO

(1723-28)

|5| Il signor Giambattista Vico egli è nato in Napoli l'anno 1670 da onesti parenti, i quali lasciarono assai buona fama di sé. Il padre fu di umore allegro, la madre di tempra assai malinconica; e così entrambi concorsero alla naturalezza di questo lor figliuolo. Imperciocché, fanciullo, egli fu spirito­sissimo e impaziente di riposo; ma in età di sette anni, essendo col capo in giù piombato da alto fuori d'una scala nel piano, onde rimase ben cinque ore senza moto e privo di senso, e fiaccatagli la parte destra del cranio senza rompersi la cotenna, quindi dalla frattura cagionatogli uno sformato tumore, per gli cui molti e profondi tagli il fanciullo si dissanguò; talché il cerusico, osservato rotto il cranio e considerando il lungo sfini­mento, ne fe' tal presagio: che egli o ne morrebbe o arebbe sopravvivuto stolido. Però il giudizio in niuna delle due parti, la Dio mercé, si avverò; ma dal guarito malore provenne che indi in poi e' crescesse di una natura malinconica ed acre, qual dee essere degli uomini in­gegn­osi e profondi, che per l'ingegno balenino in acutezze, per la riflessione non si dilettino dell'arguzie e del falso.

Quindi, dopo lunga convalescenza di ben tre anni, restituitosi alla scuola della gramatica, perché egli speditamente eseguiva in casa ciò se gl'imponeva dal maestro, tale speditezza credendo il padre che fusse negligenza, un giorno domandò al maestro se 'l suo figliuolo facesse i doveri di buon discepolo; e, colui affermandoglielo, il priegò che raddoppiasse a lui le fatiche. Ma il |6| maestro scusandosene perché il doveva regolare alla misura degli altri suoi condiscepoli, né poteva ordinare una classe di un solo e l'altra era molto superiore, allora, essendo a tal ragionamento presente il fanciullo, con grande animo priegò il maestro che permettesse a lui di passare alla superior classe, perché esso arebbe da sé supplito a ciò che gli restava in mezzo da impararsi. Il maestro, più per isperimentare ciò che potesse un ingegno fanciullesco che avesse da riuscire in fatti, glielo permise, e con sua meraviglia sperimentò tra pochi giorni un fanciullo maestro di se medesimo.
Mancato a lui questo primo, fu menato ad altro maestro, appo 'l quale si trattenne poco tempo, perché il padre fu consigliato mandarlo da' padri gesuiti, da' quali fu ricevuto nella loro seconda scuola. Il cui maestro, avendolo osservato di buon ingegno, il diede avversario successivamente a' tre più valorosi de' suoi scolari, de' quali egli, con le «diligenze» che essi padri dicono, o sieno straordinarie fatiche scolastiche, uno avvilì, un altro fe' cadere infermo per emularlo, il terzo, perché ben visto dalla Compagnia, innanzi di leggersi la «lista» che essi dicono, per privilegio d' «approfittato» fu fatto passare alla prima scuola. Di che, come di un'offesa fatta a essolui, il Giambattista risentito, e intendendo che nel secon­do semestre si aveva a ripetere il già fatto nel primo, egli si uscì da quella scuola e, chiusosi in casa, da sé apprese sull'Alvarez ciò che rimaneva da' padri a insegnarsi nella scuola prima e in quella dell'umanità, e passò l'ottobre seguente a studiare la logica. Nel qual tempo, essendo di està, egli si poneva al tavolino la sera, e la buona madre, risvegliatasi dal primo sonno e per pietà comandan­dogli che andasse a dormire, più volte il ritruovò aver lui studiato infino al giorno. Lo che era segno che, avvanzandosi in età tra gli studi delle lettere, egli aveva fortemente a diffendere la sua stima da letterato.
 Ebbe egli in sorte per maestro il padre Antonio del |7| Balzo gesuita, filosofo nominale; ed avendo nelle scuole udito che un buon sommolista fosse valente filosofo e che 'l migliore che di sommole avesse scritto fosse Pietro ispano, egli si diede fortemente a studiarlo. Indi, fatto accorto dal suo maestro che Paolo veneto era il più acuto di tutti i sommolisti, prese anche quello per profittarvi; ma l'ingegno, ancor debole da reggere a quella spezie di logica crisippea, poco mancò che non vi si perdesse, onde con suo gran cordoglio il dovette abbandonare. Da sì fatta disperazione (tanto egli è pericoloso dare a' giovani a studiar scienze che sono sopra la lor età!) fatto disertore degli studi, ne divagò un anno e mezzo. Non fingerassi qui ciò che astutamente finse Renato Delle Carte d'intorno al metodo de' suoi studi, per porre solamente su la sua filosofia e mattematica ed atterrare tutti gli altri studi che compiono la divina ed umana erudizione; ma, con ingenuità dovuta da istorico, si narrerà fil filo e con ischiettezza la serie di tutti gli studi del Vico, perché si conoscano le propie e naturali cagioni della sua tale e non altra riuscita di litterato.



Errando egli così fuori del dritto corso di una ben regolata prima giovanezza, come un generoso cavallo e molto e bene esercitato in guerra e lunga pezza poi lasciato in sua balìa a pascolare per le campagne, se egli avviene che oda una tromba guerriera, riscuotendosi in lui il militare appetito gestisce d'esser montato dal cavaliere e menato nella battaglia; così il Vico, nell'occasione di una celebre accademia degl'Infuriati, restituita a capo di moltissimi anni in San Lorenzo, dove valenti letterati uomini erano accomunati co' principali avvocati, senatori e nobili della città, egli dal suo genio fu scosso a riprendere l'abbandonato cammino, e si rimise in istrada. Questo bellissimo frutto rendono alle città le luminose acca­de­mie, perché i giovani, la cui età per lo buon sangue e per la poca sperienza è tutta fiducia e piena di alte speranze, s'infiammino a studiare |8| per la via della lode e della gloria, affinché poi, venendo l'età del senno e che cura le utilità, esse le si proccurino per valore e per merito onestamente. Così il Vico si ricevette di bel nuovo alla filosofia sotto il padre Giuseppe Ricci, pur gesuita, uomo di acutissimo ingegno, scotista di setta ma zenonista nel fondo, da cui egli sentiva molto piacere nell'intendere che le «sostanze astratte» avevano più di realità che i «modi» del Balzo nominale; il che era presagio che egli a suo tempo si avesse a dilettare più di tutt'altre della platonica filosofia, alla quale delle scolastiche niuna più s'avvicina che la scotistica, e che egli poi avesse a ragionare, con altri sentimenti che con gli alterati di Aristotile, i «punti» di Zenone, come egli ha fatto nella sua Metafisica. Ma, ad esso lui sembrando il Ricci troppo essersi trattenuto nella spiegazione dell'ente e della sostanza per quanto si distingue per gli gradi metafisici, perché egli era avido di nuove cognizioni; ed avendo udito che 'l padre Suarez nella sua Metafisica ragionava di tutto lo scibile in filosofia con una maniera eminente, come a metafisico si conviene, e con uno stile sommamente chiaro e facile, come infatti egli vi spicca con una incomparabil facondia; lasciò la scuola con miglior uso che l'altra volta, e si chiuse un anno in casa a studiare sul Suarez.
Frattanto una sola volta egli si portò nella regia università degli studi, e dal suo buon genio fu menato entro la scuola di don Felice Aquadies, valoroso lettor primario di leggi, sul punto che egli dava a' suoi discepoli tal giudizio di Ermanno Vulteio: che questi fosse il migliore di quanti mai scrissero sulle instituzioni civili; la qual parola, riposta dal Vico in memoria, fu una delle principali cagioni di tutto il miglior ordine de' suoi studi e di quello vi profittò. Perché, applicato poi dal padre agli studi legali, tra per la vicinanza e molto più per la celebrità del lettore, fu mandato da don Francesco Verde — appo il quale trattenutosi due soli mesi in lezioni tutte ripiene di casi della pratica più minuta |9| dell'uno e dell'altro fòro e de' quali il giovanetto non vedeva i princìpi, siccome quello che dalla metafisica aveva già incominciato a formare la mente universale e ragionar de' partico­lari per assiomi o sien massime, — disse al padre che esso non voleva andarvi più ad imparare, perché dal Verde esso sentiva di nulla apprendere; e, facendo allora uso del detto dell'Aquadies, il priegò che chiedesse in prestanza una copia di Ermanno Vulteio ad un dottor di leggi per nome Nicolò Maria Gianattasio, oscuro ne' tribunali ma assai dotto di buona giurisprudenza, il quale con lunga e molta diligenza aveva raccolta una libreria di libri legali eruditi preziosissima, perché sopra di tale auttore esso da sé studierebbe l'instituzioni civili. Di che il padre, ingombro dalla volgar fama e grande del lettor Verde, forte maravigliossi: ma, perché egli era assai discreto, volle in ciò compiacere al figliuolo, ed al Nicolò Maria gliele domandò, al quale il padre — mentre il figliuolo il richiedeva del Vulteio, che era di assai difficile incetta in Napoli, — siccome quello che era libraio, si ricordò avergliene tempo indietro dato uno. Il Nicolò Maria volendo sapere dal figliuolo medesimo la cagione della richiesta, questi dicendogliela — che sulle lezioni del Verde esso non faceva altro che esercitar la memoria, e l'intelletto penava di starvi a spasso, — al buon uomo e savio di tai cose piacque tanto il giudizio o più tosto senso dritto non punto giovanile del giovanetto, che, facendo perciò al padre certo presagio della buona riuscita del figliuolo, non che imprestò, donògli non solo il Vulteio, ma anche l'Instituzioni canoniche di Errigo Canisio, perché questi a esso Nicolò Maria sembrava il migliore che l'avesse scritte tra' canonisti. E sì il ben detto dell'Aquadies e 'l ben fatto di Nicolò Maria avviarono il Vico per le buone strade dell'una e dell'altra ragione.
Or, nel rincontrare particolarmente i luoghi della civile, egli sentiva un sommo piacere in due cose: una in riflettere nelle somme delle leggi dagli acuti interpetri |10| astratti in massime generali di giusto i particolari motivi dell'equità ch'avevano i giureconsulti e gl'imperadori avvertiti per la giustizia delle cause: la qual cosa l'affezionò agl'interpetri antichi che poi avvertì e giudicò essere i filosofi dell'equità naturale; l'altra in osservare con quanta diligenza i giureconsulti medesimi esaminavano le parole delle leggi, de' decreti del senato e degli editti de' pretori che interpetrano: la qual cosa il conciliò agl'interpetri eruditi, che poi avvertì ed estimò essere puri storici del dritto civile romano. Ed entrambi questi due piaceri erano altrettanti segni, l'uno di tutto lo studio che aveva egli da porre all'indagamento de' princìpi del dritto universale, l'altro del profitto che egli aveva a fare nella lingua latina, particolarmente negli usi della giurisprudenza romana, la cui più difficil parte è il saper diffinire i nomi di legge.

Studiato che egli ebbe le une ed altre instituzioni sopra i testi della ragione così civile come canonica, nulla curando queste che si dicon «materie» da insegnarsi dentro il cinquennio dell'erudizione legale, volle applicarsi ai tribunali; e dal signor don Carlo Antonio de Rosa, senatore di somma probità e protettor di sua casa, fu condotto ad apprendere la pratica del fòro dal signor Fabrizio del Vecchio, avvocato onestissimo, che poi vecchio morì dentro una somma povertà. E, per fargli apprender meglio la tela giudiziaria, portò la sorte che poco dipoi fu mossa lite a suo padre nel Sacro Consiglio, commessa al signor don Geronimo Acquaviva, la quale egli in età di sedici anni da sé la condusse e poi la difese in ruota, con l'assistenza di esso signor Fabrizio del Vecchio, con riportarne la vittoria. La quale dopo aver ragionata, ne meritò lode dal signor Pier Antonio Ciavarri, dottissimo giurecon­sulto, consigliere di quella ruota, e nell'uscire ne riportò gli abbracci dal signor Francesco Antonio Aquilante, vecchio avvocato di quel tribunale, che gli era stato avversario.

Ma quindi, come da assai molti simili argomenti, si |11| può facilmente intendere che uomini in altre parti del sapere ben avviati, in altre si raggirino in miserevoli errori per difetto che non sono guidati e condotti da una sapienza intiera e che si corrisponda in tutte le parti [, nella mente del Vico prima si abbozzò l'argomento del De nostri temporis studiorum ratione ecc., e poi si compiè con l'opera De universi iuris uno principio ecc., di cui è appendice l'altra De constantia iurisprudentis]. Imperciocché egli, già di mente metafisica, tutto il cui lavoro è intendere il vero per generi e, con esatte divisioni condotte fil filo per le spezie de' generi, ravvisarlo nelle sue ultime differenze, spampinava nelle maniere più corrotte del poetare moderno, che con altro non diletta che coi trascorsi e col falso. Nella qual maniera più fu confermato da ciò: che, dal padre Giacomo Lubrano (gesuita d'infinita erudizione e credito a que' tempi nell'eloquenza sacra, quasi da per tutto corrotta) portatosi il Vico un giorno per riportarne giudizio se esso aveva profittato in poesia, li sottopose all'emenda una sua canzone sopra la rosa, la quale sì piacque al padre, per altro generoso e gentile, che, in età grave d'anni ed in somma riputazione salito di grande orator sacro, ad un giovanetto che non mai aveva inanzi veduto non ebbe ritegno di recitare vicendevolmente un suo idillio fatto sopra lo stesso soggetto. Ma il Vico aveva appreso una tal sorta di poesia per un esercizio d'ingegno in opere d'argutezza, la quale unicamente diletta col falso, messo in comparsa stravagante che sorprenda la dritta espettazione degli uditori: onde, come farebbe dispiacenza alle gravi e severe, così cagiona diletto alle menti ancor deboli giovanili. Ed in vero sì fatto errore potrebbe dirsi divertimento poco meno che necessario per gl'ingegni de' giovani, assottigliati di troppo e irrigiditi nello studio delle metafisiche, quando dee l'ingegno dare in trascorsi per l'infocato vigor dell'età perché non si assideri e si dissecchi affatto, e con la molta severità del giudizio, propia dell'età matura, procurata innanzi tempo, non ardisca appresso mai di far nulla.

Andava egli frattanto a perdere la dilicata com­ples­sione in mal d'eticìa, ed eran a lui in troppe angustie ridotte le famigliari fortune, ed aveva un ardente desiderio |12| di ozio per seguitare i suoi studi, e l'animo abborriva grandemente dallo strepito del fòro, quando portò la buona occasione che, dentro una libreria, monsignor Geronimo Rocca vescovo d'Ischia, giureconsulto chiarissimo, come le sue opere il dimostrano, ebbe con essolui un ragionamento d'intorno al buon metodo d'inseg­nare la giurisprudenza. Di che il monsignore restò così soddisfatto che il tentò a volerla andare ad insegnare a' suoi nipoti in un castello del Cilento di bellissimo sito e di perfettissima aria, il quale era in signoria di un suo fratello, signor don Domenico Rocca (che poi sperimentò gentilissimo suo mecenate e che si dilettava parimente della stessa maniera di poesia), perché l'arebbe dello in tutto pari a' suoi figliuoli trattato (come poi in effetto il trattò), ed ivi dalla buon'aria del paese sarebbe restituito in salute ed arebbe tutto l'agio di studiare.
Così egli avvenne, perché quivi avendo dimorato ben nove anni, fece il maggior corso degli studi suoi, profondando in quello delle leggi e de' canoni, al quale il portava la sua obbligazione. E in grazia della ragion canonica inoltratosi a studiar de' dogmi, si ritruovò poi nel giusto mezzo della dottrina cattolica d'intorno alla materia della grazia, particolarmente con la lezion del Ricardo, teologo sorbonico (che per fortuna si aveva seco portato dalla libreria di suo padre), il quale con un metodo geometrico fa vedere la dottrina di sant'Agostino posta in mezzo, come a due estremi, tra la calvinistica e la pelagiana e alle altre sentenze che o all'una di queste due o all'altra si avvicinano. La qual disposizione riuscì a lui efficace a meditar poi un principio di dritto natural delle genti, il quale e fosse comodo a spiegare le origini del dritto romano ed ogni altro civile gentilesco per quel che riguarda la storia, e fosse conforme alla sana dottrina della grazia per quel che ne riguarda la morale filosofia. Nel medesimo tempo Lorenzo Valla, con l'occasione che da quello sono ripresi in |13| latina eleganza i romani giureconsulti, il guidò a coltivare lo studio della lingua latina, dandovi incominciamento dalle opere di Cicerone.
Ma, vivendo egli ancora pregiudicato nel poetare, felicemente gli avvenne che in una libreria de' padri minori osservanti di quel castello si prese tra le mani un libro, nel cui fine era una critica, non ben si ricorda, o apologia di un epigramma di un valentuomo, canonico di ordine, Massa cognomi­nato, dove si ragionava dei numeri poetici maravigliosi, spezialmente osservati in Virgilio; e fu sorpreso da tanta ammirazione che s'invogliò di studiare sui poeti latini, da quel principe facendo capo. Quindi, cominciandogli a dispiacere la sua maniera di poetar moderna, si rivolse a coltivare la favella toscana sopra i di lei prìncipi, Boccaccio nella prosa, Dante e Petrarca nel verso; e per vicende di giornate studiava Cicerone o Virgilio overo Orazio, appetto il primo di Boccaccio, il secondo di Dante, il terzo di Petrarca, su questa curiosità di vederne con integrità di giudizio le differenze. E ne apprese di quanto in tutti e tre la latina favella avvanzava l'italiana, leggendo sempre i più colti scrittori con questo ordine tre volte: la prima per comprenderne l'unità dei componi­menti, la seconda per veder gli attacchi e 'l séguito delle cose, la terza, più partita­mente, per raccôrne le belle forme del concepire e dello spiegarsi, le quali esso notava sui libri stessi, non portava in luoghi comuni o frasari; la qual pratica stimava condurre assai per bene usarle ai bisogni, ove le si ricordava né luoghi loro: che è l'unica ragione del ben concepire e del bene spiegarsi.

Quindi, leggendo nell' Arte d'Orazio che la suppellettile più doviziosa della poesia ella si proccura con la lezion de' morali filosofi, seriosa­mente applicò alla morale degli antichi greci, dandovi principio da quella di Aristotile, di cui più soventi fiate su vari princìpi d'instituzioni civili ne aveva letto riferirsi le auttorità. E in sì fatto studio avvertì che la giurisprudenza romana era |14| un'arte di equità insegnata con innumerabili minuti precetti di giusto naturale, indagati da' giureconsulti dentro le ragioni delle leggi e la volontà de' legislatori; ma la scienza del giusto che insegnano i morali filosofi, ella procede da poche verità eterne, dettate in metafisica da una giustizia ideale, che nel lavoro delle città tien luogo d'architetta e comanda alle due giustizie particolari, commutativa e distributiva, come a due fabre divine che misurino le utilità con due misure eterne, aritmetica e geometrica, sì come quelle che sono due proporzioni in mattematica dimostrate. Onde cominciò a conoscere quanto meno della metà si apprenda la disciplina legale con questo metodo di studi comunal che si osserva. Perciò si dovette esso di nuovo portare alla metafisica; ma, non soccorrendolo in ciò quella d'Aristotile, che aveva appresa nel Suarez, né sapendone veder la cagione, guidato dalla sola fama che Platone era il principe de' divini filosofi, si condusse a studiarla da essolui; e, molto dipoi che vi aveva profittato, intese la cagione perché la metafisica d'Aristotile non lo aveva soccorso per gli studi della morale, siccome di nulla soccorse ad Averroe, il cui Comento non fe' più umani e civili gli arabi di quello che erano stati innanzi. Perché la metafisica d'Aristotile conduce a un principio fisico, il quale è materia dalla quale si educono le forme particolari e, sì, fa Iddio un vasellaio che lavori le cose fuori di sé. Ma la metafisica di Platone conduce a un principio fisico, che è la idea eterna che da sé educe e crea la materia medesima, come uno spirito seminale che esso stesso si formi l'uovo: in conformità di questa metafisica, fonda una morale sopra una virtù o giustizia ideale o sia architetta, in conseguenza della quale si diede a meditare una ideale repubblica, alla quale diede con le sue leggi un dritto pur ideale. Tanto che da quel tempo che il Vico non si sentì soddisfatto della metafisica d'Aristotile per bene intendere la morale e si sperimentò addottrinare da quella di Platone, incominciò in lui,   |15|senz'avvertirlo, a destarsi il pensiero di meditare un diritto ideale eterno che celebrassesi in una città universale nell'idea o disegno della provi­denza, sopra la quale idea son poi fondate tutte le repubbliche di tutti i tempi, di tutte le nazioni: che era quella repubblica ideale che, in conseguenza della sua metafisica, doveva meditar Platone, ma, per l'ignoranza del primo uom caduto, nol poté fare.

Ad un medesimo tempo le opere filosofiche di Cicerone, di Aristotile e di Platone, tutte lavorate in ordine a ben regolare l'uomo nella civile società, fecero che egli nulla o assai poco si dilettasse della morale così degli stoici come degli epicurei, siccome quelle che entrambe sono una morale di solitari: degli epicurei, perché di sfaccendati chiusi ne' loro orticelli, degli stoici, perché di meditanti che studiavano non sentir passione. E 'l salto, che egli aveva dapprima fatto dalla logica alla metafisica, fece che 'l Vico poco poi curasse la fisica d'Aristotile, di Epicuro ed ultimamente di Renato Delle Carte; onde si ritrovò disposto a compiacersi della fisica timaica seguita da Platone, la quale vuole il mondo fatto di numeri, e ad esser rattenuto di disprezzare la fisica stoica, che vuole il mondo costar di punti, tralle quali due non è nulla di vario in sostanza, come poi si applicò a ristabilirla nel libro De antiquissima italorum sapientia; e finalmente a non ricevere né per gioco né con serietà le fisiche meccaniche di Epicuro come di Renato, che sono entrambe di falsa posizione.

Però, osservando il Vico così da Aristotile come da Platone usarsi assai sovente pruove mattematiche per dimostrare le cose che ragionano essi in filosofia, egli in ciò si vide difettoso a poter bene intendergli; onde volle applicarsi alla geometria e inoltrarsi fino alla quinta proposizione di Euclide. E, riflettendo che in quella dimostrazione si conteneva insomma una congruenza di triangoli esaminata partitamente per ciascun lato ed |16| angolo di triangolo, che si dimostra con egual distesa combaciarsi con ciascun lato ed angolo dell'altro, pruovava in se stesso cosa più facile l'intendere quelle minute verità tutte insieme, come in un genere metafisico, di quelle particolari quantità geometriche. E a suo costo sperimentò che alle menti già dalla metafisica fatte universali non riesce agevole quello studio propio degli ingegni minuti, e lasciò di seguitarlo, siccome quello che poneva in ceppi ed angustie la sua mente già avezza col molto studio di metafisica a spaziarsi nell'infinito de' generi; e con la spessa lezione di oratori, di storici e di poeti dilettava l'ingegno di osservare tra lontanissime cose nodi che in qualche ragion comune le stringessero insieme, che sono i bei nastri dell'eloquenza che fanno dilettevoli l'acutezze.

 
Talché con ragione gli antichi stimarono studio propio da applicarvisi i fanciulli quello della geometria e la giudicarono una logica propia di quella tenera età, che quanto apprende bene i particolari e sa fil filo disporgli, tanto difficilmente comprende i generi delle cose; ed Aristotile medesimo, quantunque esso dal metodo usato dalla geometria avesse astratto l'arte sillo­gisti­ca, pur vi conviene ove afferma che a' fanciulli debbano insegnarsi le lingue, l'istorie e la geometria, come materie più propie da esercitarvi la memoria, la fantasia e l'ingegno. Quindi si può facilmente intendere con quanto guasto, con che coltura della gioventù, oggi da taluni nel metodo di studiare si usano due perniziosissime pratiche. La prima, che a fanciulli appena usciti dalla scuola della gramatica si apre la filosofia sulla logica che si dice «di Arnaldo», tutta ripiena di severissimi giudizi d'intorno a materie riposte di scienze superiori e tutte lontane dal comun senso volgare; con che si vengono a convellere ne' giovinetti quelle doti della mente giovanile, le quali dovrebbero essere regolate e promosse ciascuna da un'arte propia, come la memoria con lo studio delle lingue, la fantasia con la lezione de' poeti, storici ed oratori, l'ingegno con la geometria lineare, che in un certo modo è una pittura la quale invigorisce la memoria col gran numero de' suoi elementi, ingentilisce la fantasia con le sue delicate figure come con tanti disegni descritti con sottilissime linee, e fa spedito l'ingegno in dover correrle tutte, e tra tutte raccoglier |17| quelle che bisognano per dimostrare la grandezza che si domanda; e tutto ciò per fruttare, a tempo di maturo giudizio, una sapienza ben parlante, viva ed acuta. Ma, con tai logiche, i giovinetti, trasportati innanzi tempo alla critica, che è tanto dire portati a ben giudicare innanzi di ben apprendere, contro il corso natural dell'idee, che prima apprendono, poi giudicano, finalmente ragionano, ne diviene la gioventù arida e secca nello spiegarsi e, senza far mai nulla, vuol giudicar d'ogni cosa. Al contrario, se eglino nell'età dell'ingegno, che è la giovanezza, s'impie­gassero nella topica, che è l'arte di ritrovare, che è sol privilegio dell'ingegnosi (come il Vico, fatto accorto da Cicerone, vi s'impiegò nella sua), essi apparec­chierebbero la materia per poi ben giudicare, poiché non si giudica bene se non si è conosciuto il tutto della cosa, e la topica è l'arte in ciascheduna cosa di ritrovare tutto quanto in quella è; e sì anderebbono dalla natura stessa i giovani a formarsi e filosofi e ben parlanti. L'altra pratica è che si dànno a' giovanetti gli elementi della scienza delle grandezze col metodo algebraico, il quale assidera tutto il più rigoglioso delle indoli giovanili, lor accieca la fantasia, spossa la memoria, infingardisce l'ingegno, rallenta l'intendi­mento, le quali quattro cose sono necessarissime per la coltura della miglior umanità: la prima per la pittura, scoltura, architettura, musica, poesia ed eloquenza; la seconda per l'erudizione delle lingue e dell'istorie; la terza per le invenzioni; la quarta per la prudenza. E cotesta algebra sembra un ritrovato arabico di ridurre i segni naturali delle grandezze a certe cifre a placito, conforme gli arabi i segni de' numeri, che appo i greci e latini furono le loro lettere, le quali appo entrambi, almen le grandi, sono linee geometriche regolari, essi ridussero in dieci minutissime cifre. E sì con l'algebra si affligge l'ingegno, perché non vede se non quel solo che li sta innanzi i piedi; sbalordisce la memoria, perché, ritruovato il secondo segno, non bada più al primo; abbacina la fantasia, perché non immagina affatto nulla; distrugge l'intendimento, perché professa d'indovinare: talché i giovani, che vi hanno speso molto tempo, nell'uso poi della vita civile, con lor sommo rammarico e pentimento, vi si ritruovano meno atti. Onde, perché recasse alcuna utilità e non facesse niuno di sì gran danni, l'algebra si dovrebbe apprendere per poco tempo nel fine del corso mattematico ed usarla come facevano i romani de' numeri, che nelle immense somme li descrivevano per punti; così, dove, per ritrovare le grandezze che si domandano, si avesse a durare una disperata fatica col nostro umano intendimento per la sintetica, allora |18| corressimo all'oracolo dell'analitica. Perché, per quanto appartiene a ben ragionare con questa spezie di metodo, meglio è farne l'abito con l'analitica metafisica, e in ogni quistione si vada a prendere il vero nell'infinito dell'ente, indi per gli generi della sostanza gradatamente si vada rimovendo ciò che la cosa non è per tutte le spezie de' generi, finché si giunga all'ultima differenza, che costituisca l'essenza della cosa che si desidera di sapere. [Questa alquanto lunga digressione è una lezione anniversaria del Vico a' giovani, perché sappiano fare scelta ed uso delle scienze per l'eloquenza [Nota del Vico].]
Ora, ricevendoci al proposito — scoverto che egli ebbe tutto l'arcano del metodo geometrico contenersi in ciò: di prima diffinire le voci con le quali s'abbia a ragionare; dipoi stabilire alcune massime comuni, nelle quali colui con chi si ragiona vi convenga; finalmente, se bisogna, dimandare discretamente cosa che per natura si possa concedere, affin di poter uscire i ragionamenti, che senza una qualche posizione non verrebbero a capo; e con questi princìpi da verità più semplici dimostrate procedere fil filo alle più composte, e le composte non affermare se non prima si esaminino partitamente le parti che le compongono, — stimò soltanto utile aver conosciuto come procedano ne' loro ragionamenti i geometri, perché, se mai a lui bisognasse alcuna volta quella maniera di ragio­nare, il sapesse; come poi severamente l'usò nell'opera De universi iuris uno principio, la quale il signor Giovan Clerico ha giudicato «esser tessuta con uno stretto metodo mattematico», come a suo luogo si narrerà.
Or, per sapere ordinatamente i progressi del Vico nelle filosofie, fa qui bisogno ritornare alquanto indietro: che, nel tempo nel quale egli partì da Napoli, si era cominciata a coltivare la filosofia d'Epicuro sopra Pier Gassendi, e due anni doppo ebbe novella che la gioventù a tutta voga si era data a celebrarla; onde in lui si |19| destò voglia d'intenderla sopra Lucrezio. Nella cui lezione conobbe che Epicuro, perché niegava la mente esser d'altro genere di sostanza che 'l corpo, per difetto di buona metafisica rimasto di mente limitata, dovette porre principio di filosofia il corpo già formato e diviso in parti moltiformi ultime composte di altre parti, le quali, per difetto di vuoto interspersovi, fìnselesi indivisibili: ch'è una filosofia da soddisfare le menti corte de' fanciulli e le deboli delle donnicciuole. E quantunque egli non sapesse né meno di geometria, con tutto ciò con un buono ordinato séguito di conseguenze vi fabbrica sopra una fisica meccanica, una metafisica tutta del senso, quale sarebbe appunto quella di Giovanni Locke, e una morale del piacere, buona per uomini che debbon vivere in solitudine, come in effetto egli ordinò a coloro che professassero la sua setta; e, per fargli il suo merito, con quanto diletto il Vico vedeva spiegarsi da quello le forme della natura corporea, con altrettanto o riso o compatimento il vedeva posto nella dura necessità di dare in mille inezie e sciocchezze per ispiegare le guise come operi la mente umana. Onde questo solo servì a lui di gran motivo di confermarsi vie più ne' dogmi di Platone, il quale da essa forma della nostra mente umana, senza ipotesi alcuna, stabilisce per principio delle cose tutte l'idea eterna, sulla scienza e coscienza che abbiamo di noi medesimi. Ché nella nostra mente sono certe eterne verità che non possiamo sconoscere o riniegare, e in conseguenza che non sono da noi; ma del rimanente sentiamo in noi una libertà di fare, intendendo, tutte le cose che han dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte in conoscendo le facciamo, e tutte le conteniamo dentro di noi: come le immagini con la fantasia; le reminiscenze con la memoria; con l'appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni, i tatti co' sensi; e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi. Ma per le verità eterne che non sono da noi e non hanno |20| dipendenza dal corpo nostro, dobbiamo intendere essere principio delle cose tutte una idea eterna tutta scevera da corpo, che nella sua cognizione, ove voglia, crea tutte le cose in tempo e le contiene dentro di sé e contenendole, le sostiene. Dal qual principio di filosofia stabilisce, in metafisica, le sostanze astratte aver più di realità che le corpolente; ne deriva una morale tutta ben disposta per la civiltà, onde la scuola di Socrate, e per sé e per gli suoi successori, diede i maggiori lumi della Grecia in entrambe le arti della pace e della guerra, e applaudisce alla fisica timaica, cioè di Pitagora, che vuole il mondo costar di numeri, che sono in un certo modo più astratti de' punti metafisici, ne' quali diede Zenone per ispiegarvi sopra le cose della natura, come poi il Vico nella sua Metafisica il dimostra, per quel che appresso se ne dirà.

A capo di altro poco tempo seppe egli ch'era salita in pregio la fisica sperimentale, per cui si gridava da per tutto Roberto Boyle; la quale quanto egli giudicava esser profittevole per la medicina e per la spargirica, tanto esso la volle da sé lontana, tra perché nulla conferiva alla filosofia dell'uomo e perché si doveva spiegare con maniere barbare, ed egli principalmente attendeva allo studio delle leggi romane, i cui principali fondamenti sono la filosofia degli umani costumi e la scienza della lingua e del governo romano, che unicamente si apprende sui latini scrittori.
Verso il fine della sua solitudine, che ben nove anni durò, ebbe notizia aver oscurato la fama di tutte le passate la fisica di Renato Delle Carte, talché s'infiammò di averne contezza; quando per un grazioso inganno egli ne aveva avute di già le notizie, perché esso dalla libreria di suo padre tra gli altri libri ne portò via seco la Filosofia naturale di Errico Regio, sotto la cui maschera il Cartesio l'aveva incominciata a pubblicare in Utrecht. E dopo il Lucrezio avendo preso il Regio a studiare, filosofo di profession medico, che mostrava |21| non aver altra erudizione che di mattematica, il credette uomo non meno ignaro di metafisica di quello ch'era stato Epicuro, che di mattematica non volle già mai sapere. Poiché egli pone in natura un principio pur di falsa posizione — il corpo già formato, — che soltanto differisce da quel di Epicuro, che quello ferma la divisibilità del corpo negli atomi, questo fa i suoi tre elementi divisibili all'infinito; quello pone il moto nel vano, questo nel pieno; quello incomincia a formare i suoi infiniti mondi da una casuale declinazion di atomi dal moto allo ingiù del propio lor peso e gravità, questo incomincia a formare i suoi indefiniti vortici da un impeto impresso a un pezzo di materia inerte e quindi non divisa ancora, la quale con l'impresso moto la divida in quadrelli, e, impedita dalla sua mole, metta in necessità di sforzarsi a muovere a moto retto, e, non potendo per lo suo pieno, incominci, ne' suoi quadrelli divisa, a muoversi circa il suo centro di ciascun quadrello. Onde, come dalla casuale declinazione de' suoi atomi Epicuro permette il mondo alla discrezione del caso, così, dalla necessità di sforzarsi al moto retto i primi corpicelli di Renato, al Vico sembrava che tal sistema sarebbe comodo a coloro che soggettano il mondo al fato. E di tal suo giudizio egli si rallegrò in tempo appresso, che, ricevutosi in Napoli, e risaputo che la fisica del Regio era di Renato, si erano cominciate a coltivare le Meditazioni metafisiche del medesimo. Perché Renato, ambiziosissimo di gloria, sì come — con la sua fisica machinata sopra un disegno simile a quella di Epicuro, fatta comparire la prima volta sulle cattedre di una celebratissima università di Europa, qual è quella di Utrecht, da un fisico medico — affettò farsi celebre tra professori di medicina; così poi disegnò alquante prime linee di metafisica alla maniera di Platone — ove s'industria di stabilire due generi di sostanze, una distesa, altra intelligente, per dimostrare un agente sopra la materia che materia non sia, qual |22| egli è 'l «dio» di Platone — per avere un giorno il regno anche tra i chiostri, ne' quali era stata introdotta fin dal secolo undecimo la metafisica d'Aristotile. Ché, quantunque, per quello che questo filosofo vi conferì del suo, ella avesse servito innanzi agli empi averroisti, però, essendone la pianta quella di Platone, facilmente la religion cristiana la piegò a' sensi pii del di lui Maestro, onde, come ella resse da principio con la platonica sino all'undecimo secolo, così indi in poi ha retto con la metafisica aristotelica. E, infatti, sul maggior fervore che si celebrava la fisica cartesiana, il Vico, ricevutosi in Napoli, udillo spesse volte dire dal signor Gregorio Calopreso, gran filosofo renatista, a cui il Vico fu molto caro. Ma, nell'unità delle sue parti, di nulla costa in un sistema la filosofia di Renato, perché alla sua fisica converrebbe una metafisica che stabilisse un solo genere di sostanza corporea, operante, come si è detto, per necessità, come a quella di Epicuro un sol genere di sostanza corporea, operante a caso; siccome in ciò ben conviene Renato con Epicuro, che tutte le infinite varie forme de' corpi sono modificazioni della sostanza corporea, che in sostanza son nulla. Né la sua metafisica fruttò punto alcuna morale comoda alla cristiana religione, perché, non solo non la compongono le poche cose che egli sparsamente ne ha scritto, e 'l trattato delle Passioni più serve alla medicina che alla morale; ma neanche il padre Malebranche vi seppe lavorare sopra un sistema di moral cristiana, ed i Pensieri del Pascale sono pur lumi sparsi. Né dalla sua metafisica esce una logica propia, perché Arnaldo lavora la sua sulla pianta di quella di Aristotile. Né meno serve alla stessa medicina, perché l'uom di Renato dagli anatomici non si ritruova in natura, tanto che, a petto di quella di Renato, più regge in un sistema la filosofia d'Epicuro, che non seppe nulla di mattematica. Per queste ragioni tutte, le quali avvertì il Vico, egli appresso molto godeva con esso seco che quanto con la lezion di Lucrezio si fe' più |23| dalla parte della metafisica platonica, tanto con quella del Regio più vi si confermò.
Queste fisiche erano al Vico come divertimenti dalle meditazioni severe sopra i metafisici platonici e servivangli per ispaziarvi la fantasia negli usi di poetare, in che si esercitava sovente con lavorar canzoni, durando ancora il primo abito di comporre in italiana favella, ma sull'avvedimento di derivarvi idee luminose latine con la condotta de' migliori poeti toscani. Come sul panegirico tessuto a Pompeo Magno da Cicerone nell'orazion della legge Manilia, della quale non vi ha in tal genere orazione più grave in tutta la lingua latina, egli, ad imitazione delle «tre sorelle» del Petrarca, ordì un panegirico, diviso in tre canzoni, In lode dell'elettor Massimiliano di Baviera, le quali vanno nella Scelta de' poeti italiani del signor Lippi, stampata in Lucca l'anno 1709. Ed in quella del signor Acampora de' Poeti napoletani, stampata in Napoli l'anno 1701, va un'altra canzone nelle nozze della signora donna Ippolita Cantelmi de' duchi di Popoli con don Vincenzo Carafa duca di Bruzzano ed or principe di Roccella; la quale esso compose sul confronto del leggiadrissimo carme di Catullo Vesper adest, il quale poi leggé aver imitato innanzi Torquato Tasso con una pur canzone in simigliante subietto, e 'l Vico godé non averne prima avuto contezza, tra per la riverenza di un tale e tanto poeta, e perché, ove avesse saputo che era stato già prevenuto, non arebbe osato né goduto di lavorarla. Oltre a queste, sull'idea dell' «anno massimo» di Platone, sopra la quale aveva steso Virgilio la dottissima ecloga Sicelides musae, compose il Vico un'altra canzone nelle nozze del signor duca di Baviera con Teresa real di Polonia, la quale va nel primo tomo della Scelta de' poeti napoletani del signor Albano, stampata in Napoli l'anno 1723.
Con questa dottrina e con questa erudizione il Vico si ricevé in Napoli come forestiero nella sua patria, e |24| vi ritruovò sul più bello celebrarsi dagli uomini letterati di conto la fisica di Renato. Quella di Aristotile, e per sé e molto più per le alterazioni eccessive degli scolastici, era già divenuta una favola. La metafisica — che nel Cinquecento aveva allogato nell'ordine più sublime della letteratura i Marsili Ficini, i Pici della Mirandola, amendue gli Augustini e Nifo e Steuchio, i Giacopi Mazzoni, gli Alessandri Piccolomini, i Mattei Acquavivi, i Franceschi Patrizi, ed avea tanto conferito alla poesia, alla storia, all'eloquenza, che tutta Grecia, nel tempo che fu più dotta e ben parlante, sembrava essere in Italia risurta — era ella riputata degna da star racchiusa ne' chiostri; e di Platone soltanto si arrecava alcun luogo in uso della poesia, o per ostentare un'erudizion da memoria. Si condannava la logica scolastica, e si appruovava riporsi in di lei luogo gli Elementi di Euclide. La medicina, per le spesse mutazioni de' sistemi di fisica, era decaduta nello scetticismo, ed i medici avevano incominciato a stare sull'acatalepsia o sia incomprendevolità del vero circa la natura dei morbi, e sospendersi sull'epoca o sia sostentazion dell'assenso a darne i giudizi e adoperarvi efficaci rimedi; e la galenica, la quale, coltivata innanzi con la filosofia greca e con la greca lingua, aveva dato tanti medici incomparabili, per la grande ignoranza dei suoi seguaci di questi tempi era andata in un sommo disprezzo. Gl'interpetri antichi della ragion civile erano caduti dall'alta loro riputazione nell'accademia, e salitivi gli eruditi moderni con molto danno del fòro; perché quanto questi sono necessari per la critica delle leggi romane, altrettanto quelli bisognano per la topica legale nelle cause di dubbia equità. Il dottissimo signor don Carlo Buragna aveva riportata la maniera lodevole del poetare; ma l'aveva ristretta in troppe angustie dentro l'imitazione di Giovanni della Casa, non derivando nulla o di delicato o di robusto da' fonti greci o latini o da' limpidi ruscelli delle rime del Petrarca o da' gran torrenti delle canzoni di |25| Dante. L'eruditissimo signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria; ma con queste virtù non udivasi orazione o animata dalla sapienza greca nel maneggiare i costumi o invigorita dalla gran­dezza romana in commuover gli affetti. E, finalmente, il latinissimo signor Tomaso Cornelio co' suoi purissimi Proginnasmi aveva più tosto sbigottiti gl'ingegni de' giovani che avvalorati a coltivar la lingua latina in appresso. Talché, per tutte queste cose, il Vico benedisse non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse egli giurato, e ringraziò quelle selve, fralle quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi senza niun affetto di setta, e non nella città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere. E dal comune traccuramento della buona prosa latina si determinò a maggiormente coltivarla. Ed avendo saputo che 'l Cornelio non era valuto in lingua greca, né curato aveva la toscana e nulla o pochissimo si era dilettato di critica — forse perché avvertito aveva che i poliglotti, per la moltiplicità delle lingue che sanno, non ne usano mai una perfettamente, e i critici non consieguono le virtù delle lingue, perché sempre mai si trattengono a notare i difetti sopra gli scrittori — il Vico deliberò abbandonare la greca, in cui si era avvanzato dai Rudimenti del Gressero, che aveva appreso nella seconda de' gesuiti, e la toscana favella (per la qual ragione non volle mai pur sapere la francesa), e tutto confermarsi nella latina. Ed avendo egli osservato altresì che con uscire alla luce i lessici e i comenti la lingua latina andò in decadenza, si risolvé non prender mai più tal sorta di libri tra le mani, riserbandosi il solo Nomenclatore di <Adriano> Giunio per l'intelligenza delle voci delle arti, e leggere gli auttori latini schietti di note, con una critica filosofica entrando nel di loro spirito, siccome avevan fatto gli scrittori latini del Cinquecento, tra' quali ammirava il Giovio |26| per la facondia e 'l Naugero per la delicatezza, da quel poco che ne lasciò e, per lo di lui gusto troppo elegante, ne fa sospirare la gran perdita che si è fatta della sua Storia.

Per queste ragioni il Vico non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto. Non per tanto ch'egli era di questi sensi, di queste pratiche solitarie, non venerava da lontano come numi della sapienza gli uomini vecchi accreditati in iscienza di lettere e ne invidiava con onesto cruccio ad altri giovani la ventura di conversarvi. E, con questa disposizione, che è necessaria alla gioventù per più profittare, e non sul detto de' maestri o maliziosi o ignoranti restare per tutta la vita soddisfatti di un sapere a gusto ed a misura di altrui, venne egli primieramente in notizia a due uomini di conto. Il primo fu il padre don Gaetano di Andrea teatino, che poi morì santissimo vescovo, fratello de' signori Francesco e Gennaio, entrambi di immortal nome; il quale in un ragionamento che dentro una libreria con essolui tenne il Vico di storia di collezioni di canoni, li domandò se esso avesse menato moglie. E, rispondendogli il Vico che no, quello soggiunse: se egli si volesse far teatino; a cui questo rispondendo che esso non aveva natali nobili, quello replicò che ciò nulla importerebbe, perché esso ne arebbe ottenuta dispensa da Roma. Qui, vedendosi il Vico obbligato da tanta onoranza del padre, uscì colà che aveva parenti poveri e vecchi, privi di ogni altra speranza; e pure replicando il padre che gli uomini di lettere erano piuttosto di peso che di utilità alle famiglie, il Vico conchiuse che forse in esso avverrebbe il contrario. Allora il padre finì con dire: — Non è questa la vostra vocazione — . L'altro fu il signor don Giu­seppe Lucina, uomo di una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino, il quale, avendo sperimentato il giovine quanto valesse, si doleva gentilmente che non se ne facesse alcun buon uso nella città, quando a lui si offerse |27| una bella occasione di promuoverlo: che 'l signor don Niccolò Caravita, per acutezza d'ingegno, per severità di giudizio e per purità di toscano stile avvocato primario de' tribunali e gran favoreggiatore de' letterati, volle fare una raccolta di componimenti in lode del signor conte di Santostefano, viceré di Napoli, nella di lui dipartenza, la quale fu la prima che uscì in Napoli nella nostra memoria, e dentro le angustie di pochi giorni doveva ella essere già stampata. Qui il Lucina, il quale era appo tutti di somma autorità, proposegli il Vico per l'orazione che bisognava andare innanzi agli altri componimenti, e, ricevuto da quello l'impiego, il portò a essolui, mostrandogli l'oppor­tuni­tà di venire con grado in cognizion di un protettor delle lettere, come esso lo sperimentò grandissimo suo, della qual cosa era esso giovane per se stesso desiderosissimo. E sì, perché aveva rinnonziato alle cose toscane, lavorò per quella raccolta una orazion latina sulle stampe medesime di Giuseppe Roselli, l'anno 1696. Quindi egli cominciò a salire in grido di letterato, e tra gli altri il signor Gregorio Calopreso, sopra da noi con onor mentovato, come fu detto di Epicuro, il soleva chiamare l'«autodidascalo» o sia il maestro di se medesimo. Dipoi nelle Pompe funerali di donna Caterina d'Aragona, madre del signor duca di Medinaceli, viceré di Napoli, nelle quali l'eruditissimo signor Carlo Rossi la greca, don Emmanuel Cicatelli, celebre orator sacro, la italiana, il Vico scrisse l'orazion latina, che va con gli altri componimenti in un libro in foglio stampato l'anno 1697.
Poco dopoi, essendo vacata la cattedra della rettorica per morte del professore, di rendita non più che di cento scudi annui, con l'aggiunta di altra minor incerta somma che si ritragge dai diritti delle fedi con le quali tal professore abilita gli studenti allo studio legale; detto dal signor Caravita che egli illico vi concorresse, ed esso ricusando perché un'altra pretenzione, che pochi mesi innanzi esso aveva fatta, di segretario della città, |28| gli era infelicemente riuscita; il signor don Nicolò, avendolo gentilmente ripreso come uomo di poco spirito (sì come infatti lo è d'intorno alle cose che riguardano le utilità), li disse che egli attendesse solamente a farvi la lezione, perché esso ne farebbe la pretenzione. Così il Vico vi concorse con una lezione di un'ora sopra le prime righe di Fabio Quintiliano nel lunghissimo capo De statibus caussarum contenen­dosi dentro l'etimologia e la distinzion dello «stato», ripiena di greca e latina erudizione e critica; per la quale meritò ottenerla con un numero abbondante di voti.
Frattanto il signor duca di Medinaceli viceré aveva restituito in Napoli il lustro delle buone lettere, non mai più veduto fin da' tempi di Alfonso di Aragona, con un'accademia per sua erudizione del fior fiore de' letterati propostagli da don Federico Pappacoda, cavalliere napoletano di buon gusto di lettere e grande estimatore de' letterati, e da don Nicolò Caravita; onde, perché era cominciata a salire appo l'ordine de' nobili in somma riputazione la più colta letteratura, il Vico, spintovi di più dall'onore di essere stato tra tali accademici annoverato, tutto applicossi a professare umane lettere.
Quindi è che la fortuna si dice esser amica de' giovani, perché eleggono la lor sorta della vita sopra quelle arti o professioni che fioriscono nella loro gioventù; ma, il mondo di sua natura d'anni in anni cangiando gusti, si ritruovan poi, vecchi, valorosi di quel sapere che non più piace e ' n conseguenza non frutta più. Imperciocché ad un tratto si fa un gran rivolgimento di cose letterarie in Napoli, che, quando si credevano dovervisi per lunga età ristabilire tutte le lettere migliori del Cinquecento, con la dipartenza del duca viceré vi surse un altro ordine di cose da mandarle tutte in brievissimo tempo in rovina contro ogni aspettazione; ché que' valenti letterati, i quali due o tre anni avanti dicevano che le metafisiche dovevano star chiuse |29| ne' chiostri, presero essi a tutta voga a coltivarle, non già sopra i Platoni e i Plotini coi Marsili, onde nel Cinquecento fruttarono tanti gran letterati, ma sopra le Meditazioni di Renato Delle Carte, delle quali è séguito il suo libro Del metodo, in cui egli disappruova gli studi delle lingue, degli oratori, degli storici e de' poeti, e ponendo su solamente la sua metafisica, fisica e mattematica, riduce la letteratura al sapere degli arabi, i quali in tutte e tre queste parti n'ebbero dottissimi, come gli Averroi in metafisica e tanti famosi astronomi e medici che ne hanno nell'una e nell'altra scienza lasciate anche le voci necessarie a spiegarvisi. Quindi ai quantunque dotti e grandi ingegni, perché si eran prima tutti e lungo tempo occupati in fisiche corpuscolari, in esperienze ed in macchine, dovettero le Meditazioni di Renato sembrar astrusissime, perché potessero ritrar da' sensi le menti per meditarvi; onde l'elogio di gran filosofo era: — Costui intende le Meditazioni di Renato. — E in questi tempi, praticando spesso il Vico e 'l signor don Paolo Doria dal signor Caravita, la cui casa era ridotto di uomini di lettere, questo egualmente gran cavalliere e filosofo fu il primo con cui il Vico poté cominciare a ragionar di metafisica; e ciò che il Doria ammirava di sublime, grande e nuovo in Renato, il Vico avvertiva che era vecchio e volgar tra' platonici. Ma da' ragionamenti del Doria egli vi osservava una mente che spesso balenava lumi sfolgoranti di platonica divinità, onde da quel tempo restaron congionti in una fida e signorile amicizia.
Fino a questi tempi il Vico ammirava due soli sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito; perché con una mente metafisica incomparabile Tacito contempla l'uomo qual è, Platone qual dee essere; e come Platone con quella scienza univer­sale si diffonde in tutte le parti dell'onestà che compiono l'uom sapiente d'idea, così Tacito discende a tutti i consigli dell'utilità, perché tra gl'infiniti irregolari eventi della malizia e |30| della fortuna si conduca a bene l'uom sapiente di pratica. E l'ammirazione con tal aspetto di questi due grandi auttori era nel Vico un abbozzo di quel disegno sul quale egli poi lavorò una storia ideale eterna sulla quale corresse la storia universale di tutti i tempi, conducendovi, sopra certe eterne propietà delle cose civili, surgimenti, stati, decadenze di tutte le nazioni, onde se ne formasse il sapiente insieme e di sapienza riposta, qual è quel di Platone, e di sapienza volgare, qual è quello di Tacito. Quando finalmente venne a lui in notizia Francesco Bacone signor di Verulamio, uomo ugualmente d'incompa­rabile sapienza e volgare e riposta, siccome quello che fu insieme insieme un uomo universale in dottrina ed in pratica, come raro filosofo e gran ministro di stato dell'Inghilterra. E, lasciando da parte stare gli altri suoi libri, nelle cui materie ebbe forse pari e migliori, in quelli De augumentis scientiarum l'apprese tanto che, come Platone è il principe del sapere de' greci e un Tacito non hanno i greci, così un Bacone manca ed a' latini ed a' greci; che un sol uom vedesse quanto vi manchi nel mondo delle lettere che si dovrebbe ritruovare e promuovere, ed in ciò che vi ha, di quanti e quali difetti sia egli necessario emendarsi; né per affezione o di particolar professione o di propia setta, a riserva di poche cose che offendono la cattolica religione, faccia a tutte le scienze giustizia, e a tutte col consiglio che ciascuna conferisca del suo nella somma che costitovisce l'universal repubblica delle lettere. E, propostisi il Vico questi tre singolari auttori da sempre avergli avanti gli occhi nel meditare e nello scrivere, così andò dirozzando i suoi lavori d'ingegno, che poi portarono l'ultima opera De universi iuris uno principio, ecc.
Imperciocché egli nelle sue orazioni fatte nell'aperture degli studi nella regia università usò sempre la pratica di proporre universali argomenti, scesi dalla metafisica in uso della civile; e con questo aspetto trattò o de' |31| fini degli studi, come nelle prime sei, o del metodo di studiare, come nella seconda parte della sesta e nell'intiera settima. Le prime tre trattano principalmente de' fini convenevoli alla natura umana, le due altre principalmente de' fini politici, la sesta del fine cristiano.

La prima, recitata li diciotto di ottobre 1699, propone che coltiviamo la forza della nostra mente divina in tutte le sue facoltà, su questo argomento: Suam ipsius cognitionem ad omnem doctrinarum orbem brevi absolvendum maximo cuique esse incitamento. E pruova la mente umana in via di proporzione esser il dio dell'uomo, come Iddio è la mente del tutto; dimostra le meraviglie della facoltà della mente partitamente, o sieno sensi o fantasia o memoria o ingegno o raziocinio, come operino con divine forze di speditezza, facilità ed efficacia e ad un medesimo tempo diversissime cose e moltissime; che i fanciulli, vacui di pravi affetti e di vizi, di tre o quattro anni trastullando si ritruovano aver già appresi gl'intieri lessici delle loro lingue native; che Socrate non tanto richiamò la morale filosofia dal cielo, quanto esso v'innalzò l'animo nostro, e coloro i quali con le invenzioni furono sollevati in ciel tra gli dèi, quelli sono l'ingegno di ciascuno di noi; che sia meraviglia esservi tanti ignoranti, quando, come il fumo agli occhi, la puzza al naso, così sia contrario alla mente il non sapere, l'esser ingannato, il prender errore, onde sia da sommamente vituper­arsi la negligenza; che non siamo dottissimi in tutto, unicamente perché non vogliamo esserlo, quando, col sol volere efficace, trasportati da estro, facciamo cose che, dopo fatte, l'ammiriamo come non da noi ma fatte da un dio. E perciò conchiude che, se in pochi anni un giovanetto non ha corso tutto l'orbe delle scienze, sia egli avvenuto o perché egli non ha voluto, o, se ha voluto, sia provvenuto per difetto de' maestri o di buon ordine di studiare o di fine degli studi, altrove collocato che di coltivare una specie di divinità dell'animo nostro.

|32| La seconda orazione, recitata l'anno 1700, contiene che informiamo l'animo delle virtù in conseguenza delle verità della mente, sopra questo argomento: Hostem hosti infensiorem infestioremque quam stultum sibi esse neminem. E fa vedere questo universo una gran città, nella quale con una legge eterna Iddio condanna gli stolti a fare una guerra contro di se medesimi, così concepita: «Eius legis tot sunt digito omnipotenti perscripta capita, quot sunt rerum omnium naturae. Caput de homine recitemus. Homo mortali corpore, aeterno animo esto. Ad duas res, verum honestumque, sive adeo mihi uni, nascitor. Mens verum falsumque dignoscito. Sensus menti ne imponunto. Ratio vitae auspicium, ductum imperiumque habeto. Cupidi­tates rationi parento... Bonis animi artibus laudem sibi parato. Virtute et constantia humanam felicitatem indipiscitor. Si quis stultus, sive per malam malitiam sive per luxum sive per ignaviam sive adeo per imprudentiam, secus faxit, perduel­lionis reus ipse secum bellum gerito», e vi descrive tragicamente la guerra. Dal qual luogo si vede apertamente che egli agitava fin da questo tempo nell'animo l'argomento, che poi trattò, del Diritto universale.
L'orazion terza, recitata l'anno 1701, è una come appendice pratica delle due innanzi, sopra questo argomento: A litteraria societate omnem malam fraudem abesse oportere, si vos vera non simulata, solida non vana, eruditione ornari studeatis. E dimostra che nella repubblica letteraria bisogna vivere con giustizia, e si condannano i critici a compiacenza, che esiggono con iniquità i tributi di questo erario, gli ostinati delle sètte, che im­pedis­cono accrescersi l'erario, gl'impostori, che fraudano le loro contribuzioni all'erario delle lettere.
La quarta orazione, recitata l'anno 1704, propone questo argomento: Si quis ex litterarum studiis maximas utilitates easque semper cum honestate coniunctas percipere velit, is gloriae sive communi bono erudiatur. Ella è contra i falsi dotti che studi­ano per la sola utilità, per la |33| quale proccurano più di parere che di esser tali, e, conseguita l'utilità propostasi, s'infingardiscono ed usano pessime arti per durare in oppinione di dotti. Aveva il Vico già recitata la metà di questo ragionamento, quando venne il signor don Felice Lanzina Ulloa, presidente del Sacro Consiglio, il Catone de' ministri spagnuoli, in onor di cui egli con molto spirito diede altro torno e più brieve al già detto e attaccollo con ciò che restava a dire. Per una cui simile vivezza d'ingegno, che usò in lingua italiana Clemente undecimo, quando egli era abate, nell'accademia degli Umoristi in onore del cardinale d'Etré, suo protettore, cominciò appo Innocenzo decimo­secon­do le sue fortune, che il portarono al sommo ponte­ficato.
Nella quinta orazione, recitata l'anno 1705 proponsi: Respublicas tum maxime belli gloria inclytas et rerum imperio potentes, quum maxime litteris floruerunt. E si pruova vigorosamente con buone ragioni, e poi si conferma con questa perpetua successione di esempli. Nell'Assiria sursero i caldei, primi dotti del mondo, e vi si stabilì la prima gran monarchia. Quando sfoggiò la Grecia più che in tutti i tempi innanzi in sapere, la monarchia di Persia si rovesciò da Alessandro. Roma stabilì l'imperio del mondo sulle rovine di Cartagine sotto Scipione, che seppe tanto di filosofia, di eloquenza e di poesia quanto il dimostrano le inimitabili commedie di Terenzio, le quali egli insiem col suo amico Lelio lavorò, e, stimandole indegne di uscire sotto il suo gran nome, le fece pubblicare sotto quel di cui vanno, che vi dovette alcuna cosa contribuire del suo. Certamente la monarchia romana si fermò sotto Augusto, nel cui tempo risplendé in Roma tutta la sapienza di Grecia con lo splendore della lingua romana. Il più luminoso regno d'Italia sfolgorò sotto Teodorico col consiglio de' Cassiodori. In Carlo Magno risurse l'imperio romano in Germania, perché le lettere, già affatto morte nelle corti reali d'Occidente, ricominciarono a surgere nella sua |34| con gli Alcuini. Omero fece Alessandro, il quale tutto ardeva di conformarsi in valore all'essemplo di Achille, e Giulio Cesare si destò alle grandi imprese sull'essemplo di esso Alessandro; talché questi due gran capitani, de' quali niuno ardì diffinire la maggioranza, sono scolari d'un eroe d'Omero. Due cardinali, entrambi grandissimi filosofi e teologi, ed uno, di più, grande orator sacro, Simenes e Riscegliù, quello descrisse la pianta della monarchia di Spagna, questo quella di Francia. Il Turco ha fondato un grand'imperio sulla barbarie, ma col consiglio di un Sergio, dotto ed empio monaco cristiano, che allo stupido Maometto diede la legge sopra la quale il fondasse; e, mentre i greci, dall'Asia incominciando e poi dapertutto, erano andati nella barbarie, gli arabi coltivarono le metafisiche, le mattematiche, le astronomie, le medicine, e con questo sapere di dotti, quantunque non della più colta umanità, destarono a una somma gloria di conquiste gli Almanzorri tutti barbari e fieri, e servirono a stabilire al Turco un imperio nel quale fossero vietate tutte le lettere; il quale però, se non fosse per gli perfidi cristiani prima greci e poi latini, che han loro somministrato di tempo in tempo le arti e i consigli della guerra, sarebbe il loro vasto imperio da se medesimo rovinato.
Nella orazion sesta, recitata l'anno 1707, tratta quest'argomento mescolato di fine degli studi e di ordine di studiare: Corruptae hominum naturae cognitio ad universum ingenuarum artium scientia­rum­que absolvendum orbem invitat incitat­que, ac rectum, facilem ac perpetuum in iis perdiscendis ordinem proponit exponitque. Qui egli fa entrar gli uditori in una meditazion di se medesimi, che l'uomo in pena del peccato è diviso dall'uomo con la lingua, con la mente e col cuore: con la lingua, che spesso non soccorre e spesso tradisce l'idee per le quali l'uomo vorrebbe e non può unirsi con l'uomo; con la mente, per la varietà delle opinioni nate dalla diversità de' gusti de' sensi, ne' quali uom non |35| conviene con altr'uomo; e finalmente col cuore, per lo quale, corrotto, nemmeno l'uniformità de' vizi concilia l'uomo con l'uomo. Onde pruova che la pena della nostra corruzione si debba emendare con la virtù, con la scienza, con l'eloquenza, per le quali tre cose unicamente l'uomo sente lo stesso che altr'uomo. E ciò, per quello s'attiene al fine degli studi. Per quello riguarda l'ordine di studiare, pruova che, siccome le lingue furono il più potente mezzo di fermare l'umana società, così dalle lingue deono incominciarsi gli studi, poiché elle tutte s'attengono alla memoria, nella quale vale mirabilmente la fanciullezza. L'età de' fanciulli, debole di raziocinio, non con altro si regola che con gli essempli, che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere, nella quale la fanciullezza è meravigliosa; quindi i fanciulli si devono trattenere nella lezion della storia così favolosa come vera. È ragionevole la età de' fanciulli, ma non ha materia di ragionare: s'addestrino all'arte del buon raziocinio nelle scienze delle misure, che vogliono memoria e fantasia e, insieme insieme, spossan loro la corpolenta facoltà dell'imma­gina­tiva, che, robusta, è la madre di tutti i nostri errori e miserie. Nella prima gioventù prevagliono i sensi e ne trascinano la mente pura: si applichino alle fisiche, che portano alla contemplazione dell'uni­verso de' corpi ed han bisogno delle mattematiche per la scienza del sistema mondano. Quindi dalle vaste idee corpolente fisiche e dalle delicate delle linee e de' numeri si dispongano ad intendere l'infinito astratto in metafisica con la scienza dell'ente e dell'uno, nella quale conoscendo i giovani la lor mente, si dispongano a ravvisare il loro animo, e in séguito di eterne verità il vedan corrotto, per potersi disporre ad emendarlo naturalmente con la morale in età che già han fatto alcuna sperienza quanto mal conducano le passioni, le quali sono in fanciullezza violentissime. Ed ove conoscano che naturalmente la morale pagana non basti perché ammansisca e domi la |36| filautia o sia l'amor propio, ed avendo in metafisica sperimentato intender essi più certo l'infinito che il finito, la mente che 'l corpo, Iddio che l'uomo, il quale non sa le guise come esso si muova, come senta, come conosca, si dispongano con l'intelletto umiliato a ricevere la rivelata teologia, in conseguenza di cui discendano alla cristiana morale, e, così purgati, si portino finalmente alla cristiana giurisprudenza.
Fin dal tempo della prima orazione che si è rapportata, e per quella e per tutte l'altre seguenti, e più di tutte per quest'ultima, apertamente si vede che 'l Vico agitava un qualche argomento e nuovo e grande nell'animo, che in un principio unisse egli tutto il sapere umano e divino; ma tutti questi da lui trattati n'eran troppo lontani. Ond'egli godé non aver dato alla luce queste orazioni, perché stimò non doversi gravare di più libri la repubblica delle lettere, la quale per la tanta lor mole non regge, e solamente dovervi portare in mezzo libri d'impor­tanti discoverte e di utilissimi ritrovati. Ma nell'anno 1708, avendo la regia università determinato fare un'apertura di studi pubblica solenne e dedicarla al re con un'orazione da dirsi alla presenza del cardinal Grimani viceré di Napoli, e che perciò si doveva dare alle stampe, venne felicemente fatto al Vico di meditare un argomento che portasse alcuna nuova scoverta ed utile al mondo delle lettere, che sarebbe stato un desiderio degno da esser noverato tra gli altri del Bacone nel suo Nuovo organo delle scienze. Egli si raggira d'intorno a' vantaggi e disvantaggi della maniera di studiare nostra, messa al confronto di quella degli antichi in tutte le spezie del sapere, e quali svantaggi della nostra e con quali ragioni si potessero schivare, e quelli che schivar non si possono con quai vantaggi degli antichi si potessero compensare, tanto che un'intiera università di oggidì fosse, per essemplo, un solo Platone con tutto il dì più che noi godemo sopra gli antichi; perché tutto il sapere umano e divino reggesse |37| dapertutto con uno spirito e costasse in tutte le parti sue, sì che si dassero le scienze l'un'all'altra la mano, né alcuna fusse d'impedimento a nessuna. La dissertazione uscì l'istesso anno in dodicesimo dalle stampe di Felice Mosca. Il quale argomento, in fatti, è un abbozzo dell'opera che poi lavorò: De universi iuris uno principio ecc., di cui è appendice l'altra De constantia iurisprudentis.
E perché egli il Vico sempre aveva la mira a farsi merito con l'università nella giurisprudenza per altra via che di leggerla a giovinetti, vi trattò molto dell'arcano delle leggi degli antichi giurisprudenti romani, e diede un saggio di un sistema di giurisprudenza d'interpretare le leggi, quantunque private, con l'aspetto della ragione del governo romano. Circa la qual parte monsignor Vincenzo Vidania, prefetto de' regi studi, uomo dottissimo delle antichità romane, specialmente intorno alle leggi, che in quei tempi era in Barcellona, con una onorevolissima dissertazione gli oppose in ciò che il Vico aveva fermo: che i giureconsulti romani antichi fossero stati tutti patrizi; alla quale il Vico allora privatamente rispose e poi soddisfece pubblica­mente con l'opera De universi iuris ecc., a' cui piedi si legge la dissertazione dell'illustrissimo Vidania con le risposte del Vico. Ma il signor Errico Brenckman, dottissimo giureconsulto olandese, molto si compiacque delle cose dal Vico meditate circa la giurisprudenza; e, mentre dimorava in Firenze a rileggere i Pandetti fiorentini, ne tenne onorevoli ragionamenti col signor Antonio di Rinaldo, da Napoli colà portato a patrocinarvi una causa di un napoletano magnate. Questa dissertazione uscita alla luce, accresciuta di ciò che non si poté dire alla presenza del cardinal viceré per non abusarsi del tempo, che molto bisogna a' principi, fu ella cagione che 'l signor Domenico d'Aulisio, lettor primario vespertino di leggi, uomo universale delle lingue e delle scienze (il quale fino a quell'ora aveva |38| mal visto il Vico nell'università, non già per suo merito, ma perché egli era amico di que' letterati i quali erano stati del partito del Capova contro di lui in una gran contesa litteraria, la quale molto innanzi aveva brucciato in Napoli, che qui non fa uopo di riferire), un giorno di pubblica funzione di concorsi di cattedre, a sé chiamò il Vico, invitandolo a sedere presso lui; a cui disse aver esso letto «quel libricciuolo» (perché egli, per contesa di precedenza col lettor primario de' canoni, non interveniva nelle aperture), «e lo stimava di uomo che non voltava indici e del quale ogni pagina potrebbe dare altrui motivo di lavorare ampi volumi». Il qual atto sì cortese e giudizio così benigno di uomo per altro nel costume anzi aspro che no ed assai parco di lodi, appruovò al Vico una singolar grandezza d'animo di quello verso di lui; dal qual giorno vi contrasse una strettissima amicizia, la quale egli continovò fin che visse questo gran letterato.
Frattanto il Vico, con la lezione del più ingegnoso e dotto che ver<o trattato> di Bacone da Verulamio De sapientia veterum, si destò a ricercarne più in là i princìpi che nelle favole de' poeti, muovendolo a far ciò l'auttorità di Platone, ch'era andato nel Cratilo ad investigargli dentro le origini della lingua greca; e, promuovendolo la disposizione, nella quale era già entrato, che l'incominciavano a dispiacere l'etimologie de' gramatici, s'applicò a rintracciargli dentro le origini delle voci latine, quando certamente il sapere della setta italica fiorì assai innanzi, nella scuola di Pittagora, più profondo di quello che poi cominciò nella medesima Grecia. E dalla voce «coelum», che significa egualmente il «bolino» e 'l «gran corpo dell'aria», congetturava non forse gli egizi, da cui Pittagora aveva appreso, avessero oppinato che l'istromento, con cui la natura lavora tutto, egli sia il cuneo, e che ciò vollero significare gli egizi con le loro piramidi. E i latini la «natura» dissero «ingenium», di cui è principal propietà l'acutezza; sì che la |39| natura formi e sformi ogni forma col bolino dell'aria; e che formi, leggiermente incavando, la materia; la sformi, profondandovi il suo bolino col quale l'aria depreda tutto; e la mano che muova questo istrumento sia l'etere, la cui mente fu creduta da tutti Giove. E i latini l'«aria» dissero «anima», come principio onde l'universo abbia il moto e la vita, sopra cui, come femmina, operi come maschio l'etere, che, insinuato nell'animale, da' latini fu detto «animus»; onde è quella volgar differenza di latine propietà: «anima vivimus, animo sentimus»; talché l'anima, o l'aria, insinuata nel sangue sia nell'uomo principio della vita, l'etere insinuato ne' nervi sia principio del senso; ed a quella proporzione che l'etere è più attivo dell'aria, così gli spiriti animali sieno più mobili e presti che i vitali; e come sopra l'anima opera l'animo, così sopra l'animo operi quella che da' latini si dice «mens», che tanto vale quanto «pensiero», onde restò a' latini detta «mens animi», e che 'l pensiero o mente sia agli uomini mandato da Giove, che è la mente dell'etere. Ché se egli fosse così, il principio operante di tutte le cose in natura dovrebbero essere corpicelli di figura piramidali; e certamente l'etere unito è fuoco. E su tali princìpi un giorno, in casa del signor don Lucio di Sangro, il Vico ne tenne ragionamento col signor Doria: che forse quello che i fisici ammirano strani effetti nella calamita, eglino non si riflettono che sono assai volgari nel fuoco; de' fenomeni della calamita tre essere i più meravigliosi, l'attrazione del ferro, la comunicazione al ferro della virtù magnetica e l'addrizzamento al polo; e niuna cosa essere più volgare che 'l fomento in proporzionata distanza concepisce il foco e, in arruotarsi, la fiamma, che ci comunica il lume, e che la fiamma s'addrizza al vertice del suo cielo: tanto che, se la calamita fosse rada come la fiamma e la fiamma spessa come la calamita, questa non si addrizzarebbe al polo ma al suo zenit, e la fiamma si addrizzarebbe al polo, non al suo vertice: che sarebbe |40| se la calamita per ciò si addrizzi al polo perché quella sia la più alta parte del cielo verso cui ella possa sforzarsi? Come apertamente si osserva nelle calamite poste in punte ad aghi alquanto lunghe, che, mentre s'addrizzano al polo, elleno apertamente si vedono sforzarsi d'ergere verso il zenit; talché forse la calamita osservata con questo aspetto, determinata da viaggiatori in qualche luogo dove ella più che altrove si ergesse, potrebbe dare la misura certa delle larghezze delle terre, che cotanto si va cercando per portare alla sua perfezione la geografia.
Questo pensiero piacque sommamente al signor Doria, onde il Vico si diede a portarlo più inoltre in uso della medicina, perché de' medesimi egizi, i quali significarono la natura con la piramide, fu particolar medicina meccanica quella del lasco e dello stretto, che 'l dottissimo Prospero Alpino con somma dottrina ed erudizione adornò. E vedendo altresì il Vico che niun medico aveva fatto uso del caldo e del freddo quali li diffinisce il Cartesio: — che 'l freddo sia moto da fuori in dentro, il caldo, a roverscio, moto da dentro in fuori, — fu mosso a fondarvi sopra un sistema di medicina: non forse le febbri ardenti sieno d'aria nelle vene dal centro del cuore alla periferia, che più di quel che conviene a star bene dilarghi i diametri de' vasi sanguigni turati dalla parte opposta al di fuori; ed al contrario le febbri maligne sieno moto d'aria ne' vasi sanguigni da fuori in dentro, che ne dilarghi oltre di quel che conviene a star bene i diametri de' vasi turati nella parte opposta al di dentro; onde, mancando al cuore, ch'è 'l centro del corpo animato, l'aria che bisogna tanto muoverlo quanto convenga a star bene, infievolendosi il moto del cuore, se ne rappigli il sangue, in che principalmente le febbri acute consistono; e questo sia quello «quid divini» che Ippocrate diceva cagionare tai febbri. Vi concor­rono da tutta la natura ragionevoli con­getture, perché egualmente il freddo e 'l caldo conferiscono |41| alla generazion delle cose: il freddo a germogliare le semenze delle biade e ne' cadaveri alla ingenerazione de' vermini, ne' luoghi umidi e oscuri a quella d'altri animali, e l'eccessivo freddo egualmente che 'l foco cagiona delle gangrene ed in Isvezia les gangrene si curan col ghiaccio; vi concorrono i segni, nelle maligne, del tatto freddo e de' sudori colliquativi, che dànno a divedere un gran dilargamento de' vasi escretòri; nelle ardenti, il tatto infocato ed aspro, che con l'asprezza significa troppo al di fuori essersi i vasi corrugati e stretti. Che sarebbe se quindi restò a' latini, che riducessero tutti i morbi a questo sommo genere: «ruptum», che vi fosse stata una antica medicina in Italia, che stimasse tutti i mali cominciassero da vizio di solidi e che portino finalmente a quello che dicono i medesimi latini «corruptum»?
Quindi, per le ragioni arrecate in quel libricciuolo che poi ne diede alla luce, s'innalzò il Vico a stabilire questa fisica sopra una metafisica propia; e con la stessa condotta delle origini de' latini favellari ripurgò i punti di Zenone dagli alterati rapporti di Aristotile, e mostrò che i punti zenonistici sieno l'unica ipotesi da scendere dalle cose astratte alle corpolente, siccome la geometria è l'unica via da portarsi con iscienza dalle cose corpolente alle cose astratte, di che costano i corpi; — e, diffinito il punto quello che non ha parti (che è tanto dire quanto fondare un principio infinito dell'estensione astratta), come il punto, che non è disteso, con un escorso faccia l'estension della linea, così vi sia una sostanza infinita che con un suo come escorso, che sarebbe la generazione, dia forma alle cose finite; — e come Pittagora, che vuole per ciò il mondo costar di numeri, che sono in un certo modo delle linee più astratti, perché l'uno non è numero e genera il numero ed in ogni numero dissuguale vi sta dentro indivisibilmente (onde Aristotile disse l'essenze essere indivisibili siccome i numeri, ch'è tanto dividergli quanto distruggergli), |42| così il punto, che sta egualmente sotto linee distese ineguali (onde la diagonale con la laterale del quadrato, per essemplo, che sono altrimente linee incom­mensu­rabili, si tagliano ne' medesimi punti), sia egli un'ipotesi di una sostanza inestensa, che sotto corpi disuguali vi stia egual­mente sotto ed egualmente li sostenga. Alla qual metafisica anderebbero di séguito così la logica degli stoici, nella quale s'addottrinavano a ragionare col sorite, che era una lor propia maniera di argomentare quasi con un metodo geometrico; come la fisica, la quale ponga per principio di tutte le forme corporee il cuneo, in quella guisa che la prima figura composta, che s'ingenera in geometria, è 'l triangolo, siccome la prima semplice è 'l cerchio, simbolo del perfettissimo Dio. E così ne uscirebbe comodamente la fisica degli egizi, che intesero la natura una piramide, che è un solido di quattro facce triangolari, e vi si accomoderebbe la medicina egiziana del lasco e dello stretto. Della quale egli un libro di pochi fogli col titolo De aequilibrio corporis animantis ne scrisse al signor Domenico d'Aulisio, dottissimo quant'altri mai delle cose di medicina; e ne tenne altresì spessi ragionamenti col signor Lucantonio Porzio, onde si conciliò appo questi un sommo credito congionto ad una stretta amicizia, la quale coltivò egli infino alla morte di questo ultimo filosofo italiano della scuola di Galileo, il quale soleva dir spesso con gli amici che le cose meditate dal Vico, per usare il suo detto, il ponevano in soggezione. Ma la Metafisica sola fu stampata in Napoli in dodicesimo l'anno 1710 presso Felice Mosca, indrizzata al signor don Paolo Doria, per primo libro del De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda. E vi si attaccò la contesa tra' signori giornalisti di Vinegia e l'auttore, di cui ne vanno stampate in Napoli in dodicesimo pur dal Mosca una Risposta l'anno 1711 e una Replica l'anno 1712; la qual contesa da ambe le parti e onorevolmente si trattò, e con molta buona grazia si compose. Ma il dispiacimento |43| delle etimologie gramatiche, che era incominciato a farsi sentire nel Vico, era un indizio di ciò onde poi, nelle opere ultime, ritruovò le origini delle lingue tratte da un principio di natura comune a tutte, sopra il quale stabilisce i princìpi di un etimologico universale da dar l'origini a tutte le lingue morte e viventi. E 'l poco compiacimento del libro del Verulamio, ove si dà a rintracciare la sapienza degli antichi dalle favole de' poeti, fu un altro segno di quello onde il Vico, pur nell'ultime sue opere, ritruovò altri princìpi della poesia di quelli che i greci e i latini e gli altri dopoi hanno finor creduto, sopra cui ne stabilisce altri di mitologia, co' quali le favole unicamente portarono significati storici delle prime antichissime repubbliche greche, e ne spiega tutta la storia favolosa delle repubbliche eroiche.
Poco dopoi, fu onorevolmente richiesto dal signor don Adriano Caraffa duca di Traetto, nella cui erudizione era stato molti anni impiegato, che egli scrivesse la vita del maresciallo Antonio Caraffa suo zio; e 'l Vico, che aveva formato l'animo verace, ricevé il comando perché ébbene pronta dal duca una sformata copia di buone e sincere notizie, che 'l duca ne conservava. E dal tempo degli esercizi diurni rimanevagli la sola notte per lavorarla, e vi spese due anni, uno a disporne da quelle molto sparse e confuse notizie i comentari, un altro a tesserne l'istoria, in tutto il qual tempo fu travagliato da crudelissimi spasimi ippocon­driaci nel braccio sinistro. E, come poteva ogniun vederlo, la sera, per tutto il tempo che la scrisse non ebbe giammai altro innanzi sul tavolino che i comentari, come se scrivesse in lingua nativa, ed in mezzo agli strepiti domestici e spesso in conversazion degli amici; e sì lavorolla temprata di onore del subbietto, di riverenza verso i prìncipi e di giustizia che si dee aver per la verità. L'opera uscì magnifica dalle stampe di Felice Mosca in quarto foglio in un giusto volume l'anno |44| 1716, e fu il primo libro che con gusto di quelle di Olanda uscì dalle stampe di Napoli; e, mandata dal duca al sommo pontefice Clemente undecimo, in un brieve, con cui la gradì, meritò l'elogio di «storia immortale», e di più conciliò al Vico la stima e l'amicizia di un chiarissimo letterato d'Italia, signor Gianvincenzo Gravina, col quale coltivò stretta corrispondenza infino che egli morì (1718).


Nell'apparecchiarsi a scrivere questa vita, il Vico si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio, De iure belli et pacis. E qui vide il quarto auttore da aggiugnersi agli tre altri che egli si aveva proposti. Perché Platone adorna più tosto che ferma la sua sapienza riposta con la volgare di Omero; Tacito sparge la sua metafisica, morale e politica per gli fatti, come da' tempi ad essolui vengono innanzi sparsi e confusi senza sistema; Bacone vede tutto il saper umano e divino, che vi era, doversi supplire in ciò che non ha ed emendare in ciò che ha, ma, intorno alle leggi, egli co' suoi canoni non s'innalzò troppo all'universo delle città ed alla scorsa di tutti i tempi né alla distesa di tutte le nazioni. Ma Ugon Grozio pone in sistema di un dritto universale tutta la filosofia e la filologia in entrambe le parti di questa ultima, sì della storia delle cose o favolosa o certa, sì della storia delle tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre lingue dotte antiche che ci son pervenute per mano della cristiana religione. Ed egli molto più poi si fe'addentro in quest'opera del Grozio, quando, avendosi ella a ristampare, fu richiesto che vi scrivesse alcune note, che 'l Vico cominciò a scrivere, più che al Grozio, in riprensione di quelle che vi aveva scritte il Gronovio, il quale le vi appiccò più per compiacere a' governi liberi che per far merito alla giustizia; e già ne aveva scorso il primo libro e la metà del secondo, delle quali poi si rimase, sulla riflessione che non conveniva ad uom cattolico di religione adornare di note opera di auttore eretico.

|45| Con questi studi, con queste cognizioni, con questi quattro auttori che egli ammirava sopra tutt'altri, con desiderio di piegargli in uso della cattolica religione, finalmente il Vico intese non esservi ancora nel mondo delle lettere un sistema, in cui accordasse la miglior filosofia, qual è la platonica subordinata alla cristiana religione, con una filologia che portasse necessità di scienza in entrambe le sue parti, che sono le due storie, una delle lingue, l'altra delle cose; e dalla storia delle cose si accertasse quella delle lingue, di tal condotta che sì fatto sistema componesse amichevolmente e le massime de' sapienti dell'accademie e le pratiche de' sapienti delle repubbliche. Ed in questo intendimento egli tutto spiccossi dalla mente del Vico quello che egli era ito nella mente cercando nelle prime orazioni augurali ed aveva dirozzato pur grossolanamente nella dissertazione De nostri temporis studiorum ratione e, con un poco più di affinamento, nella Metafisica. Ed in un'apertura di studi pubblica solenne dell'anno 1719 propose questo argomento: Omnis divinase atque humanae eruditionis elementa tria: nosse, velle, posse; quorum princi­pium unum mens, cuius oculus ratio, cui aeterni veri lumen praebet Deus. E partì l'argomento così: «Nunc haec tria elementa, quae tam existere et nostra esse quam nos vivere certo scimus, una illa re de qua omnino dubitare non possumus, nimirum cogitatione, explicemus. Quod quo facilius faciamus, hanc tractationem universam divido in partes tres: in quarum prima omnia scientiarum principia a Deo esse; in secunda, divinum lumen sive aeternum verum per haec tria quae proposuimus elementa, omnes scientias permeare, easque omnes una arctissima complexione colligatas alias in alias dirigere et cunctas ad Deum, ipsarum principium, revocare; in tertia, quicquid usquam de divinae ac humanae eruditionis principiis scriptum dictumve sit quod cum his principiis congruerit, verum; quod dissenserit, falsum esse demonstremus. Atque adeo de divinarum atque humanarum rerum notitia haec agam tria: de origine, |46| de circulo, de constantia; et ostendam origines omnes a Deo provenire, circulo ad Deum redire omnes, constantia omnes constare in Deo omnesque eas ipsas praeter Deum tenebras esse et errores». E vi ragionò sopra da un'ora e più.
Sembrò a taluni l'argomento, particolar­mente per la terza parte, più magnifico che efficace, dicendo che non di tanto si era compromesso Pico della Mirandola quando propose sostenere «conclu­sio­nes de omni scibili», perché ne lasciò la grande e maggior parte della filologia, la quale, intorno a innumerabili cose delle religioni, lingue, leggi, costumi, domìni, commerzi, imperi, governi, ordini ed altre, è ne' suoi incominciamenti mozza, oscura, irragionevole, incredibile e disperata affatto da potersi ridurre a princìpi di scienza. Onde il Vico, per darne innanzi tempo un'idea che dimostrasse poter un tal sistema uscire all'effetto, ne diede fuora un saggio l'anno 1720, che corse per le mani de' letterati d'Italia e d'oltremonti, sopra il quale alcuni diedero giudizi svantaggiosi; però, non gli avendo poi sostenuti quando l'opera uscì adornata di giudizi molto onorevoli di uomini letterati dottissimi, co' quali efficacemente la lodarono, non sono costoro da essere qui mentovati. Il signor Anton Salvini, gran pregio dell'Italia, degnossi fargli contro alcune difficoltà filologiche (le quali fece a lui giugnere per lettera scritta al signor Francesco Valletta, uomo dottissimo e degno erede della celebre biblioteca vallettiana lasciata dal signor Gioseppe, suo avo), alle quali gentilmente rispose il Vico nella Constanza della filologia; altre filosofiche del signor Ulrico Ubero e del signor Cristiano Tomasio, uomini di rinomata letteratura della Germania, gliene portò il signor Luigi barone di Ghemminghen, alle quali egli si ritruovava già aver soddisfatto con l'opera istessa, come si può vedere nel fine del libro De constantia iurisprudentis.
Uscito il primo libro col titolo De uno universi iuris |47| principio et fine uno l'istesso anno 1720, dalle stampe pur di Felice Mosca in quarto foglio, nel quale pruova la prima e la seconda parte della dissertazione, giunsero all'orecchio dell'auttore obbiezioni fatte a voce da sconosciuti ed altre da alcuno fatte pure privatamente, delle quali niuna convelleva il sistema, ma intorno a leggieri particolari cose, e la maggior parte in conseguenza delle vecchie oppinioni contro le quali si era meditato il sistema. A' quali opponitori, per non sembrare il Vico che esso s'infingesse i nemici per poi ferirgli, risponde senza nominargli nel libro che diede appresso: De constantia iurisprudentis, accioché così sconosciuti, se mai avessero in mano l'opera, tutti soli e secreti intendessero esser loro stato risposto. Uscì poi dalle medesime stampe del Mosca, pur in quarto foglio, l'anno appresso 1721, l'altro volume col titolo: De constantia iurisprudentis, nella quale più a minuto si pruova la terza parte della dissertazione, la quale in questo libro si divide in due parti, una De constantia philosophiae, altra De constantia philologiae; e in questa seconda parte dispiacendo a taluni un capitolo così concepito: Nova scientia tentatur, donde s'incomincia la filologia a ridurre a princìpi di scienza, e ritruovando infatti che la promessa fatta dal Vico nella terza parte della dissertazione non era punto vana non solo per la parte della filosofia, ma, quel che era più, né meno per quella della filologia, anzi di più che sopra tal sistema vi si facevano molte ed importanti scoverte di cose tutte nuove e tutte lontane dall'oppinione di tutti i dotti di tutti i tempi, non udì l'opera altra accusa: che ella non s'intendeva. Ma attestarono al mondo che ella s'intendesse benissimo uomini dottissimi della città, i quali l'approvarono pubblicamente e la lodarono con gravità e con efficacia, i cui elogi si leggono nell'opera medesima.
Tra queste cose una lettera dal signor Giovan Clerico fu scritta all'auttore del tenore che siegue:
|48| Accepi, vir clarissime, ante perpaucos dies ab ephoro illustrissimi comitis Wildenstein opus tuum de origine iuris et philologia, quod, cum essem Ultraiecti, vix leviter evolvere potui. Coactus enim negotiis quibus­dam Amstelodamum redire, non satis mihi fuit temporis ut tam limpido fonte me proluere possem. Festinante tamen oculo vidi multa et egregia, tum philosophica tum etiam philologica, quae mihi occasionem praebebunt ostendendi nostris septen­trio­nalibus eruditis acumen atque eruditi­onem non minus apud italos inveniri quam apud ipsos; imo vero doctiora et acutiora dici ab italis quam quae a frigidiorum orarum incolis expectari queant. Cras vero Ultraiectum rediturus sum, ut illic perpaucas hebdomadas morer utque me opere tuo satiem in illo secessu, in quo minus quam Amstelodami interpellor. Cum mentem tuam probe adsequutus fuero, tum vero in voluminis XVIII Bibliotecae antiquae et hodiernae parte altera ostendam quanti sit faciendum. Vale, vir clarissime, meque inter egregiae tuae eruditionis iustos aestimatores numerato. Dabam, festinanti manu, Amstelodami, ad diem VIII septembris MDCCXXII.
Quanto questa lettera rallegrò i valenti uomini che avevano giudicato a pro dell'opera del Vico, altrettanto dispiacque a coloro che ne avevano sentito il contrario. Quindi si lusingavano che questo era un privato complimento del Clerico, ma, quando egli ne darebbe il giudizio pubblico nella Biblioteca, allora ne giudicherebbe conforme a essoloro pareva di giustizia; dicendo esser impossibile che con l'occasione di quest'opera del Vico volesse il Clerico cantare la palinodia di quello che egli, presso a cinquant'anni, ha sempre detto: che in Italia non si lavoravano opere le quali per ingegno e per dottrina potessero stare a petto di quelle che uscivano da oltramonti. E 'l Vico frattanto, per appruovare al mondo che esso amava sì la stima degli uomini eccellenti, ma non già la faceva fine e mèta de' suoi travagli, lesse tutti e due i poemi d'Omero con l'aspetto de' suoi princìpi di filologia, e, per certi canoni mitologici che ne aveva concepiti, li fa vedere in altra comparsa di quello con la quale sono stati finora osservati, e divinamente esser tessuti sopra due subbietti due gruppi di |49| greche istorie dei tempi oscuro ed eroico secondo la division di Varrone. Le quali lezioni omeriche, insieme con essi canoni, diede fuori pur dalle stampe del Mosca in quarto foglio l'anno seguente 1722, con questo titolo: Iohannis Baptistae Vici Notae in duos libros, alterum De universi iuris principio, alterum De constantia iurisprudentis.
Poco dipoi vacò la cattedra primaria mattutina di leggi, minor della vespertina, con salario di scudi seicento l'anno; e 'l Vico, destato in isperanza di conseguirla da questi meriti che si sono narrati particolarmente in materia di giurisprudenza, li quali egli si aveva perciò apparecchiati inverso la sua università, nella quale esso è il più anziano di tutti per ragione di possesso di cattedre, perché esso solo possiede la sua per intestazione di Carlo secondo, e tutti gli altri le possiedono per intestazioni più fresche; ed affidato nella vita che aveva menato nella sua patria, dove con le sue opere d'ingegno aveva onorato tutti, giovato a molti e nociuto a nessuno; il giorno avanti, come egli è uso, aperto il Digesto vecchio, sopra del quale dovevan sortire quella volta le leggi, egli ebbe in sorte queste tre: una sotto il titolo De rei vindicatione, un'altra sotto il titolo De peculio, e la terza fu la legge prima sotto il titolo De praescriptis verbis. E perché tutti e tre erano testi abbondanti, il Vico, per mostrare a monsignor Vidania, prefetto degli studi, una pronta facoltà di fare quel saggio, quantunque giammai avesse professato giurispru­denza, il priegò che avessegli fatto l'onore di determinargli l'un de' tre luoghi ove a capo le ventiquattro ore doveva fare la lezione. Ma il prefetto scusandosene, esso si elesse l'ultima legge, dicendo il perché quella era di Papiniano, giureconsulto sopra tutt'altri di altissimi sensi, ed era in materia di diffinizioni di nomi di leggi, che è la più difficile impresa da ben condursi in giurisprudenza; prevedendo che sarebbe stato audace ignorante colui che l'avesse avuto a calonniare perché si avesse eletto tal legge, |50| perché tanto sarebbe stato quanto riprenderlo perché egli si avesse eletto materia cotanto difficile; talché Cuiacio, ove egli diffinisce nomi di legge, s'insuperbisce con merito e dice che vengan tutti ad impararlo da lui, come fa ne' Paratitli de' Digesti (De codicillis), e non per altro ei riputa Papiniano principe de' giureconsulti romani che perché niuno meglio di lui diffinisca e niuno ne abbia portato in maggior copia migliori diffinizioni in giurisprudenza.
Avevano i competitori poste in quattro cose loro speranze, nelle quali come scogli il Vico dovesse rompere. Tutti, menati dalla interna stima che ne avevano, credevan certamente che egli avesse a fare una magnifica e lunga prefazion de' suoi meriti inverso l'università. Pochi, i quali intendevano ciò che egli arebbe potuto, auguravano che egli ragionerebbe sul testo per gli suoi Princìpi del dritto universale, onde con fremito dell'udienza arebbe rotte le leggi stabilite di concorrere in giurisprudenza. Gli più, che stimano solamente maestri della facoltà coloro che l'insegnano a' giovani, si lusingavano o che, ella essendo una legge dove Ottomano aveva detto di molta erudizione, egli con Ottomano vi facesse tutta la sua comparsa, o che, su questa legge avendo Fabbro attaccato tutti i primi lumi degl'interpetri e non essendovi stato alcuno appresso che avesse al Fabbro risposto, il Vico arebbe empiuta la lezione di Fabbro e non l'arebbe attaccato. Ma la lezione del Vico riuscì tutta fuori della loro aspettazione, perché egli vi entrò con una brieve, grave e toccante invocazione; recitò immediatamente il principio della legge, sul quale e non negli altri suoi paragrafi restrinse la sua lezione; e, dopo ridotta in somma e partita, immediatamente in una maniera quanto nuova ad udirsi in sì fatti saggi cotanto usata da' romani giureconsulti, che da per tutto risuonano: «Ait lex», «Ait senatusconsultum», «Ait praetor», con somigliante formola «Ait iurisconsultus» interpetrò le parole della legge una per |51| una partitamente, per ovviare a quell'accusa che spesse volte in tai concorsi si ode, che egli avesse punto dal testo divagato, perché sarebbe stato affatto ignorante maligno alcuno che avesse voluto scemarne il pregio perché egli l'avesse potuto fare sopra un principio di titolo, perché non sono già le leggi ne' Pandetti disposte con alcun metodo scolastico d'instituzioni, e, come egli fu in quel principio allogato Papiniano, poteva ben altro giureconsulto allogarsi, che con altre parole ed altri sentimenti avesse data la diffinizione dell'azione che ivi si tratta. Indi dalla interpretazione delle parole tragge il sentimento della diffinizione papinianea, l'illustra con Cuiacio, indi la fa vedere conforme a quella degl'interpetri greci. Immediatamente appresso si fa incontro al Fabbro, e dimostra con quanto leggiere o cavillose o vane ragioni egli riprende Accursio, indi Paolo di Castro, poi gl'interpetri oltramontani antichi, appresso Andrea Alciato; ed avendo dinanzi, nell'ordine de' ripresi da Fabbro, preposto Ottomano a Cuiacio, nel seguirlo si dimenticò di Ottomano e, dopo Alciato, prese Cuiacio a difendere; di che avvertito, trappose queste parole: «Sed memoria lapsus Cuiacium Othmano praeverti; at mox, Cuiacio absoluto, Hotmanum a Fabro vindicabimus». Tanto egli aveva poste speranze di fare con Ottomano il concorso! Finalmente, sul punto che veniva alla difesa di Ottomano, l'ora della lezione finì.
Egli la pensò fino alle cinque ore della notte antecedente, in ragionando con amici e tra lo strepito de' suoi figliuoli, come ha uso di sempre o leggere o scrivere o meditare. Ridusse la lezione in sommi capi, che si chiudevano in una pagina, e la porse con tanta facilità come se non altro avesse professato tutta la vita, con tanta copia di dire che altri v'arebbe aringato due ore, col fior fiore dell'eleganze legali della giurisprudenza più colta e co' termini dell'arte anche greci, ed ove ne abbisognava alcuno scolastico, più tosto il disse greco |52| che barbaro. Una sol volta, per la difficoltà della voce progegrammenwn, egli si fermò alquanto; ma poi soggiunse: «Ne miremini me substitisse, ipsa enim verbi antitupia me remorata est»; tanto che parve a molti fatto a bella posta quel momentaneo sbalordimento, perché con un'altra voce greca sì propia ed elegante esso si fosse rimesso. Poi il giorno appresso la stese quale l'aveva recitata e ne diede essemplari, fra gli altri, al signor don Domenico Caravita, avvocato primario di questi suppremi tribunali, degnissimo figliuolo del signor don Nicolò, il quale non vi poté intervenire.
Stimò soltanto il Vico portare a questa pretensione i suoi meriti e 'l saggio della lezione, per lo cui universal applauso era stato posto in isperanza di certamente conseguire la cattedra; quando egli, fatto accorto dell'infelice evento, qual in fatti riuscì anche in persona di coloro che erano immediatamente per tal cattedra graduati, perché non sembrasse delicato o superbo di non andar attorno, di non priegare e fare gli altri doveri onesti de' pretensori, col consiglio ed auttorità di esso signor don Domenico Caravita, sapiente uomo e benvoglientissimo suo, che gli appruovò che a esso conveniva tirarsene, con grandezza di animo andò a professare che si ritraeva dal pretenderla.
Questa dissavventura del Vico, per la quale disperò per l'avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria, fu ella consolata dal giudizio del signor Giovan Clerico, il quale, come se avesse udite le accuse fatte da taluni alla di lui opera, così nella seconda parte del volume XVIII della Biblioteca antica e moderna, all'articolo VIII, con queste parole, puntualmente dal francese tradotte, per coloro che dicevano non intendersi, giudica generalmente: che l'opera è «ripiena di materie recondite, di considerazioni assai varie, scritta in istile molto serrato»; che infiniti luoghi avrebbono bisogno di ben lunghi estratti; è ordita con «metodo mattematico», che «da pochi princìpi tragge infinità di |53| conseguenze»; che bisogna leggersi con attenzione, senza interrompimento, da capo a piedi, ed avvezzarsi alle sue idee ed al suo stile; così, col meditarvi sopra, i leggitori «vi truoveranno di più, col maggiormente innoltrarsi, molte scoverte e curiose osservazioni fuor di loro aspettativa». Per quello onde fe' tanto romore la terza parte della dissertazione, per quanto riguarda la filosofia dice così: «Tutto ciò che altre volte è stato detto de' princìpi della divina ed umana erudizione, che si truova uniforme a quanto è stato scritto nel libro precedente, egli è di necessità vero». Per quanto riguarda alla filologia, egli così ne giudica: «Egli ci dà in accorcio le principali epoche dopo il diluvio infino al tempo che Annibale portò la guerra in Italia; perché egli discorre in tutto il corpo del libro sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, e fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantità di errori vulgari, a' quali uomini intenden­tissimi non hanno punto badato». E finalmente conchiude per tutti: «Vi si vede una mescolanza perpetua di materie filosofiche, giuridiche e filologiche, poiché il signor Vico si è particolarmente applicato a queste tre scienze e le ha ben meditate, come tutti coloro che leggeranno le sue opere converranno in ciò. Tra queste tre scienze vi ha un sì forte ligame che non può uom vantarsi di averne penetrata e conosciuta una in tutta la sua distesa senza averne altresì grandissima cognizione dell'altre. Quindi è che alla fine del volume vi si veggono gli elogi che i savi italiani han dato a quest'opera, per cui si può comprendere che riguardano l'auttore come intenden­tissimo della metafisica, della legge e della filologia, e la di lui opera come un originale pieno d'importanti discoverte».
Ma non altronde si può intendere apertamente che 'l Vico è nato per la gloria della patria e in conseguenza dell'Italia, perché quivi nato e non in Marocco esso riuscì letterato, che da questo colpo di avversa fortuna, |54| onde altri arebbe rinunziato a tutte le lettere, se non pentito di averle mai coltivate, egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere. Come in effetto ne aveva già lavorata una divisa in due libri, ch'arebbono occupato due giusti volumi in quarto: nel primo de' quali andava a ritrovare i princìpi del diritto naturale delle genti dentro quegli dell'umanità delle nazioni, per via d'inverisimiglianze, sconcezze ed impossibilità di tutto ciò che ne avevano gli altri inanzi più immaginato che raggionato; in conseguenza del quale, nel secondo, egli spiegava la generazione de' costumi umani con una certa cronologia raggionata di tempi oscuro e favoloso de' greci, da' quali abbiamo tutto ciò ch'abbiamo delle antichità gentilesche. E già l'opera era stata riveduta dal signor don Giulio Torno, dottissimo teologo della chiesa napoletana, quando esso — riflettendo che tal maniera negativa di dimostrare quanto fa di strepito nella fantasia tanto è insuave all'intendimento, poiché con essa nulla più si spiega la mente umana; ed altronde per un colpo di avversa fortuna, essendo stato messo in una necessità di non poterla dare alle stampe, e perché pur troppo obbligato dal propio punto di darla fuori, ritrovandosi aver promesso di pubblicarla — ristrinse tutto il suo spirito in un'aspra meditazione per ritrovarne un metodo positivo, e sì più stretto e quindi più ancora efficace.
E nel fine dell'anno 1725 diede fuori in Napoli, dalle stampe di Felice Mosca, un libro in dodicesimo di dodeci fogli, non più, in carattere di testino, con titolo: Princìpi di una Scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, per li quali si ritruovano altri princìpi del diritto naturale delle genti, e con uno elogio l'indirizza alle università dell'Europa. In quest'opera egli ritruova finalmente tutto spiegato quel principio, ch'esso ancor confusamente e non con tutta distinzione aveva inteso nelle sue opere antecedenti. Imperciocché egli appruova una indispensabile necessità, anche umana, di ripetere |55| le prime origini di tal Scienza da' princìpi della storia sacra, e, per una disperazione dimostrata così da' filosofi come da' filologi di ritrovarne i progressi ne' primi auttori delle nazioni gentili, esso — facendo più ampio, anzi un vasto uso di uno de' giudizi che 'l signor Giovanni Clerico avea dato dell'opera antecedente, che ivi egli «per le principali epoche ivi date in accorcio dal diluvio universale fino alla seconda guerra di Cartagine, discorrendo sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantità di errori volgari, a' quali uomini intendentissimi non hanno punto badato» — discuopre questa nuova Scienza in forza di una nuova arte critica da giudicare il vero negli auttori delle nazioni medesime dentro le tradizioni volgari delle nazioni che essi fondarono, appresso i quali doppo migliaia d'anni vennero gli scrittori, sopra i quali si ravvoglie questa critica usata; e, con la fiaccola di tal nuova arte critica, scuopre tutt'altre da quelle che sono state immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti, che abbisognano per raggionare con idee schiarite e con parlari propi del diritto naturale delle nazioni. Quindi egli ne ripartisce i princìpi in due parti, una delle idee, un'altra delle lingue. E per quella dell'idee, scuopre altri princìpi storici di cronologia e geografia, che sono i due occhi della storia, e quindi i princìpi della storia universale, c' han mancato finora. Scuopre altri princìpi storici della filosofia, e primieramente una metafisica del genere umano, cioè una teologia naturale di tutte le nazioni, con la quale ciascun popolo naturalmente si finse da se stesso i suoi propri dèi per un certo istinto naturale che ha l'uomo della divinità, col cui timore i primi auttori delle nazioni si andarono ad unire con certe donne in perpetua compagnia di vita, che fu la prima umana società de' matrimoni; e sì scuopre essere stato lo stesso il gran principio della teologia de' gentili |56| e quello della poesia de' poeti teologi, che furono i primi nel mondo e quelli di tutta l'umanità gentilesca. Da cotal metafisica scuopre una morale e quindi una politica commune alle nazioni, sopra le quali fonda la giurisprudenza del genere umano variante per certe sette de' tempi, sì come esse nazioni vanno tuttavia più spiegando l'idee della loro natura, in conseguenza delle quali più spiegate vanno variando i governi, l'ultima forma de' quali dimostra essere la monarchia, nella quale vanno finalmente per natura a riposare le nazioni. Così supplisce il gran vuoto che ne' suoi princìpi ne ha lasciato la storia universale, la quale incomincia in Nino dalla monarchia degli assiri. Per la parte delle lingue, scuopre altri princìpi della poesia e del canto e de' versi, e dimostra essere quella e questi nati per necessità di natura uniforme in tutte le prime nazioni. In seguito di tai princìpi scuopre altre origini dell'imprese eroiche, che fu un parlar mutolo di tutte le prime nazioni in tempi diformati di favelle articolate. Quindi scuopre altri princìpi della scienza del blasone, che ritruova esser gli stessi che quegli della scienza delle medaglie, dove osserva eroiche di quattromill'anni di continuata sovranità le origini delle due case d'Austria e di Francia. Fra gli effetti della discoverta delle origini delle lingue ritruova certi princìpi communi a tutte, e per un saggio scuopre le vere cagioni della lingua latina, e al di lei essemplo lascia agli eruditi a farlo delle altre tutte; dà un'idea di un etimologico commune a tutte le lingue natie, un'altra di altro etimologico delle voci di origine straniera, per ispiegare finalmente un'idea d'un etimologico universale per la scienza della lingua necessaria a raggionare con propietà del diritto naturale delle genti. Con sì fatti princìpi sì d'idee come di lingue, che vuol dire con tal filosofia e filologia del gener umano, spiega una storia ideale eterna sull'idea della providenza, dalla quale per tutta l'opera dimostra il diritto |57|  naturale delle genti ordinato; sulla quale storia eterna corrono in tempo tutte le storie particolari delle nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Sì che esso dagli egizi, che motteggiavano i greci che non sapessero di antichità, con dir loro che erano sempre fanciulli, prende e fa uso di due gran rottami di antichità: uno, che tutti i tempi scorsi loro dinanzi essi divisero in tre epoche, una dell'età degli dèi, l'altra dell'età degli eroi, la terza di quella degli uomini; l'altro che con questo stesso ordine e numero di parti in altrettanta distesa di secoli si parlarono inanzi, ad essoloro tre lingue: una divina, muta, per geroglifici o sieno caratteri sacri; un'altra simbolica o sia per metafore, qual è la favella eroica; la terza epistolica per parlari convenuti negli usi presenti della vita. Quindi dimostra la prima epoca e lingua essere state nel tempo delle famiglie, che certamente furono appo tutte le nazioni inanzi delle città e sopra le quali ognun confessa che sorsero le città, le quali famiglie i padri da sovrani prìncipi reggevano sotto il governo degli dèi, ordinando tutte le cose umane con gli auspici divini, e con una somma naturalezza e semplicità ne spiega la storia dentro le favole divine de' greci. Quivi osservando che gli dèi d'Oriente, che poi da' caldei furono innalzati alle stelle, portati da' fenici in Grecia (lo che dimostra esser avvenuto dopo i tempi d'Omero), vi ritruovarono acconci i nomi dei dèi greci a ricevergli, sì come poi, portati nel Lazio, vi ritruovarono acconci i nomi dei dèi latini. Quindi dimostra cotale stato di cose, quantunque in altri dopo altri, essere corso egualmente tra latini, greci ed asiani. Appresso dimostra la seconda epoca con la seconda lingua simbolica essere state nel tempo de' primi governi civili, che dimostra essere stati di certi regni eroici o sia d'ordini regnanti de' nobili, che gli antichissimi greci dissero «razze erculee», riputate di origine divina sopra le prime plebi, tenute da quelli di origine bestiale; la cui storia egli spiega |58| con somma facilità descrittaci da' greci tutta nel carattere del loro Ercole tebano, che certamente fu il massimo de' greci eroi, della cui razza furono certamente gli Eraclidi, da' quali sotto due re si governava il regno spartano, che senza contrasto fu aristocratico. Ed avendo egualmente gli egizi e greci osservato in ogni nazione un Ercole, come de' latini ben quaranta ne giunse a numerare Varrone, dimostra dopo degli dèi aver regnato gli eroi da per tutte le nazioni gentili e, per un gran frantume di greca antichità, che i cureti uscirono di Grecia in Creta, in Saturnia, o sia Italia, ed in Asia; scuopre questi essere stati i quiriti latini, di cui furono una spezie i quiriti romani, cioè uomini armati d'aste in adunanza; onde il diritto de' quiriti fu il diritto di tutte le genti eroiche. E dimostra la vanità della favola della legge delle XII tavole venuta da Atene, scuopre che sopra tre diritti nativi delle genti eroiche del Lazio, introdotti ed osservati in Roma e poi fissi nelle tavole, reggono le cagioni del governo, virtù e giustizia romana in pace con le leggi e in guerra con le conquiste; altrimenti la romana storia antica, letta con l'idee presenti, ella sia più incredibile di essa favolosa de' greci; co' quali lumi spiega i veri princìpi della giurisprudenza romana. Finalmente dimostra la terza epoca dell'età degli uomini e delle lingue volgari essere nei tempi dell'idee della natura umana tutta spiegata e ravisata quindi uniforme in tutti; onde tal natura si trasse dietro forme di governi umani, che pruova essere il popolare e 'l monarchico, della qual setta de' tempi furono i giureconsulti romani sotto gl'imperadori. Tanto che viene a dimostrare le monarchie essere gli ultimi governi in che si ferman finalmente le nazioni; e che sulla fantasia che i primi re fussero stati monarchi quali sono i presenti, non abbiano affatto potuto incominciare le repubbliche; anzi con la froda e con la forza, come si è finora immaginato, non abbiano potuto affatto cominciare le nazioni. Con queste ed altre |59| discoverte minori, fatte in gran numero, egli raggiona del diritto naturale delle genti, dimostrando a quali certi tempi e con quali determinate guise nacquero la prima volta i costumi che forniscono tutta l'iconomia di cotal diritto, che sono religioni, lingue, domìni, commerzi, ordini, imperi, leggi, armi, giudizi, pene, guerre, paci, alleanze, e da tali tempi e guise ne spiega l'eterne propietà che appruovano tale e non altra essere la loro natura o sia guisa e tempo di nascere; osservandovi sempre essenziali differenze tra gli ebrei e gentili: che quelli da principio sorsero e stieron fermi sopra pratiche di un giusto eterno, ma le pagane nazioni, conducendole assolutamente la providenza divina, vi sieno ite variando con costante uniformità per tre spezie di diritti, corrispondenti alle tre epoche e lingue degli egizi: il primo, divino, sotto il governo del vero Dio appo gli ebrei e di falsi dèi tra' gentili; il secondo, eroico, o propio degli eroi, posti in mezzo agli dèi e gli uomini; il terzo, umano, o della natura umana tutta spiegata e riconosciuta eguale in tutti, dal quale ultimo diritto possono unicamente provenire nelle nazioni i filosofi, i quali sappiano compierlo per raziocini sopra le massime di un giusto eterno. Nello che hanno errato di concerto Grozio, Seldeno e Pufendorfio, i quali per difetto di un'arte critica sopra gli auttori delle nazioni medesime, credendogli sapienti di sapienza riposta, non videro che a' gentili la providenza fu la divina maestra della sapienza volgare, dalla quale tra loro, a capo di secoli uscì la sapienza riposta; onde han confuso il diritto naturale delle nazioni, uscito coi costumi delle medesime, col diritto naturale de' filosofi, che quello hanno inteso per forza de' raziocini, senza distinguervi con un qualche privilegio un popolo eletto da Dio per lo suo vero culto, da tutte le altre nazioni perduto. Il qual difetto della stessa arte critica aveva tratto, inanzi, gl'interpetri eruditi della romana ragione che sulla favola delle leggi venute di Atene intrusero, contro il di lei |60| genio, nella giurisprudenza romana le sètte de' filosofi, e spezialmente degli stoici ed epicurei, de' cui princìpi non vi è cosa più contraria a quelli, non che di essa giurisprudenza, di tutta la civiltà; e non seppero trattarla per le di lei sètte propie, che furono quelle de' tempi, come apertamente professano averla trattata essi romani giureconsulti.





Con la qual opera il Vico, con gloria della cattolica religione, produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare all'Olanda, l'Inghilterra e la Germania protestante i loro tre príncipi di questa scienza, e che in questa nostra età nel grembo della vera Chiesa si scuoprissero i princìpi di tutta l'umana e divina erudizione gentilesca. Per tutto ciò ha avuto il libro la fortuna di meritare dall'eminentissimo cardinale Lorenzo Corsini, a cui sta dedicato, il gradimento con questa non ultima lode: «Opera, al certo, che per antichità di lingua e per solidezza di dottrina basta a far conoscere che vive anche oggi negl'italiani spiriti non meno la nativa particolaris­sima attitudine alla toscana eloquenza che il robusto felice ardimento a nuove produzioni nelle più difficili discipline; onde io me ne congratulo con cotesta sua ornatissima patria».
I

DAS LEBEN DES VERFASSERS VON IHM
SELBST BESCHRIEBEN

Übersetzung von Wilhelm Weber 1822

|5| Herr Giambattisto Vico ist geboren zu Neapel im Jahre 1670 von achtbaren Aeltern, die einen sehr guten Ruf von sich hinterlassen: der Vater war von heiterem Humore, die Mutter ziemlich melancho­lisches Temp­era­ments; und solcher­massen wirkten auch beyde ein auf die Gemüthsart dieses ihres Sohnes. Denn derselbe war, als Kind, äußerst geistvoll und rastlos: als er jedoch in einem Alter von sieben Jahren kopfüber von der Höhe einer Treppe auf den Boden gestürzt, wovon der wohl fünf Stunden lang ohne Bewegung und sinnlos blieb; und ihm die rechte Seite der Hirnschale zerschellt war, ohne daß doch die Haut geborsten wäre; verlor er durch die vielen und tiefen Schnitte der ihm durch den Bruch erregten unförmlichen Geschwulst viel Blut: so daß der Wundarzt, da er den Hirn­schädel geborsten sah, und in Erwägung der langen Ohnmacht, von ihm prophezeite, er werde entweder daran sterben, oder im Ueberlebungsfalle blödsinnig bleiben. Indeß bewährte sich dieß Urtheil Gott sey Dank in keinem der beyden Stücke; dagegen zeigte sich als Folge der Genesung von dem Unfalle, daß er seitdem melancholischer und reitzbarer Natur blieb, wie sie gehört für sinnreiche und tiefe Menschen, die von Seiten des Geistes in feinen Einfällen aufblitzen, von Seiten der Reflexion aber an Spitzfindigkeiten und am Falschen keinen Genuß finden.


Als er hierauf nach einer langwierigen Genesung von beinahe drei Jahren wieder in die Grammatikschule gethan worden, zu Hause aber alles, was ihm der Lehrer aufgab, in kurzer Zeite fertig brachte, hielt der Vater dieses Gewandheit für Unfleiß, und fragte eines Tages den Lehrer, ob sein Sohn den Obliegenheiten eines ordentlichen Schülers nach­komme? Da ihn nun dieser dessen versicherte, bat er ihn selbigem die Arbeiten zu verdoppeln. Da jedoch |6| der Lehrer sich deßfalls entschuldigte, weil er ihn nach dem Maasstabe seiner übrigen Mitschüler behandeln müsse und keine Classe für einen Einzigen errichten könne, die folgende aber viel zu hoch sey; bat das Kind, welches gerade bei dieser Unterredung zugegen war, seinen Lehrer mit Inständigkeit, daß er ihm erlauben mögte, in die höhere Classe überzugehen: er wolle für sich selbst ergänzen, was ihm zu lernen noch an stände. Der Lehrer, mehr um zu versuchen, was ein kindlicher Geist vermögte, als daß er wirklich an das Gelingen gedacht hätte, ließ es ihm zu, und zu seinem Erstaunen erfand er binnen Tagen ein Kind, das sein eigener Lehrmeister geworden.


Als dieser erste Lehrer abgieng, ward er zu einem anderen gebracht, bei welchem er sich nur kurz Zeit aufhielt; denn dem Vater wurde gerathen ihn zu den Vätern der Gesellschaft Jesu zu senden, von welchen er in ihren zweyten Cursus aufgenommen wurde: dessen Lehrer ihn, da er seinen guten Kopf bemerkte, nach und nach dreien seiner tüchtigsten Scholaren zum Gegner gab; deren einen er mit den, Diligenzen, wie es die Väter nennen, d.h. den außerordentlichen Schul­arbeiten überholte; den zweyten über dem Wetteifer mit ihm auf das Krankenbett brachte; der dritte wurde, als von er Gesellschaft gern gesehen, vor dem Ablesen der Liste, wie sie es nennen, als ein wegen seiner Fortschritte Bevorrechteter in die erste Classe befördert: worüber, als einer ihm geschehen Kränkung Giambattista empfindlich wurde, und da er einsah, daß im zweyten Halbjahr das schon im ersten Vorgenommenen wiederholt werden würde, jene Schule verließ, daheim nach Alvarez für sich lernte, was die Väter in der ersten, und in der Humanitätsclasse noch zu lehren hatten, und im folgenden October zum Studium der Logik überging. In dieser Zeit, da es gerade Sommer war, setzte er sich Abends an sein Tischgen, und wenn dann die gute Mutter aus dem ersten Schlafe aufwachte und ihn aus Zärtlichkeit zu Bette gehen hieß, fand sie dann oft, daß er bis zum Morgen studiert hatte: was ein Zeichen war, daß, wenn sein Alter in den Studien der Wissenschaften würde vorgerückt seyn, er seinen Ruf als Gelehrter tapfer zu behaupten wissen würde.




Er hatte eben zum Lehrer den Jesuiten, Pater Antonio del |7| Balzo, einen Nominalphilophen: und da er in der Schule gehört, daß ein guter Summulist ein gediegener Philosoph, und der beste, so über die Summulae geschrieben, Petrus Hispanus sey, machte er sich eifrig daran, ihn zu studieren: hierauf von seinem Lehrer aufmerksam gemacht, daß Paul von Venedig der Scharfsinnigste aller Summulisten gewesen, nahm er auch jenen zur Hand, um durch ihn weiter zu kommen: da aber sein Geist noch zu schwach war, um jener Art Chrysippischer Logik gewachsen zu seyn, so fehlte wenig, daß er nicht darüber zu Grunde gegangen wäre; weßhalb er zu seinem großen Herzeleid davon abgehen mußte. In dieser Verzweifelung (so gefährlich ist es, jungen Leuten Fächer zum Studium anzuweisen, die über ihr Alter sind!) wurde er zum Ausreisser an den Studien, und schweifte ein- und ein halbes Jahr von ihnen ab. Es soll hier nicht gedichtet werden, was da schlauer­weise Renatus Cartesius über die Methode seiner Studien gedichtet, um lediglich die Philosophie und die Mathematik in die Höhe zu bringen, alle anderen Bestrebungen aber, welche die göttliche und menschliche Gelahrtheit ausmachen, herunter­zusetzen: sondern mit der Unbefangenheit, die des Historikers Pflicht ist, wird genau und schlicht die Reihe sämmtlicher Studien Vico's erzählt werden, auf daß man die eigentlichen und natürlichen Ursachen erkennen möge, warum er als Gelehrter so und nicht andere werden mußte.
Wie ein edles im Kriege viel und wohl geübtes Roß, welches man lange Zeit nach seinem Gefallen durch die Felder weiden ließ, wenn es zufälligerweise die Kriegstrompete vernimmt, die Kampfbegier in sich aufwachen fühlt, und brennt, vom Reiter bestiegen und in die Schlacht geführt zu werden, so ward Vico, während er besagterweise aus der geraden Bahn einer wohlgeregelten ersten Jugend abirrete, bei Gelegenheit, da die berühmte Academie der Infuriati nach Verfluß einer Reihe von Jahren in St. Lorenzo wieder hergestellt wurde, wo sich wackere gelehrte Männer mit den vorzüglichsten Advocaten, Rathsherren und Adelichen der Stadt zusammenfanden, von seinem Genius getrieben, den verlassenen Weg wieder einzu­schlagen, und er trat wieder auf die Straße. Diese herrliche Frucht bringen den Städten glänzende Academieen: daß die Jünglinge, deren Alter durch das muntere Blut und die geringe Erfahrung ganz Zuversicht und voll erhabener Hoffnungen ist, zum Studium entflammt werden mögen |8| auf dem Wege des Beifalles und des Ruhmes, damit nachher, wenn das Alter der Besonnenheit, und welches um Vortheile besorgt ist, eintritt, sie sich solche durch Anstrengung und durch Verdienst auf ehrenhafte Weise erwerben mögen. So begab sich Vico ganz von vornen zur Philosophie zurück unter dem Pater Joseph Ricci, gleichfalls Jesuiten, einem Manne von Scharfsinnigstem Geiste, Scotisten der Secte nach, Zenonisten aber im Grunde, von welchem er mit vielem Genügen vernahm, daß die abstracten Substanzen mehr Realität hätten, als die Moden des Nominalen Balzo: was ein Vorzeichen war, daß er seiner Zeit mehr als an allen anderen an der Planonischen Philosophie Geschmack finden würde, der sich unter den scholastischen keine mehr nähert, als die Scotistische: und daß er einst mit anderen Gedanken, als den verfälschten des Aristoteles, die Puncte des Zeno erörtern würde, wie er es gethan hat in seiner Metaphysik. Als ihm indeß vorkam, daß Ricci sich zu sehr aufgehalten bei der Erklärung des Seyenden und der Substanz, in sofern sie nach den metaphysischen Stufen unterschieden wird, er aber nach neuen Kenntnissen begierig war, und gehört hatte, der Pater Suarez handle in seiner Metaphysik über alles philosophisch Wißbare in einer ausgezeichneten Manier, wie es dem Metaphysiker zukommt, und in einer höchst klaren und leichten Schreibart, wie selbige wirklich bei ihm in unver­gleich­licher Beredtsamkeit hinfließt, verließ er die Schule mit besserem Erfolge, als das erstemal, und schloß sich auf ein Jahr zu Hause ein, um nach Suarez zu studieren.


Unterdeß begab er sich ein einziges Mal in die königliche Universität der Studien, und ward von seinem guten Genius in die Schule des Don Felix Aquadies geführt, trefflichen ersten Lectors der Rechte, in dem Augenblicke, als derselbe seinen Schülern folgendes Urtheil über Hermann Vultejus aufstellte, daß nämlich derselbe der beste sey von allen, die jemals über die Institutionen des Civilrechtes geschrieben, welches Wort sich Vico ins Gedächtniß prägte, und welches eine der Hauptursachen der ganzen besseren Ordnung seiner Studien und dessen, was er darin leistete, geworden ist: denn als ihn sofort sein Vater für die Rechtsfächer bestimmt, ward er theils wegen der Nachbarschaft, noch mehr aber wegen der Berühmt­heit des Lectors, zu Don Francesco Verde geschickt, und als er sich bei diesem bloß zween Monate über Lectionen, die ganz ausgefüllt wurden mit Fällen aus der kleinfügigsten Praxis |9| des einen und des anderen Forum, und von denen der junge Mensch die Principien nicht einsahe; als der durch die Metaphysik bereits angefangen hatte, seine Seele universal zu bilden und über das Besondere nach Grundsätzen oder Maximen zu handeln; sagte er seinem Vater, daß er nicht mehr dahin zum Unterricht gehen möge, weil er bemerke, daß er bei Verde nichts lerne: und ersuchte ihn nun, von dem Anspruche des Aquadies Gebrauch machend, sich ein Exemplar des Hermann Vultejus auszubitten von einem Doctor der Rechte Namens Nicolo Maria Gianattasio, unberühmt in den Gerichts­höfen, aber sehr gelehrt in der ächten Rechts­wissenschaft, welcher mit langer und vieler Sorgfalt eine äußerst kostbare Sammlung gelehrter Rechtsbücher zusammengebracht hatte; denn nach diesem Verfasser gedenke er die Institutionen unmittelbar für sich selbst zu studieren: worüber der Vater, eingenommen durch den allgemeinen und großen Ruf des Lector Verde, sich stark verwunderte: da er aber sehr nachgiebig war, wollte er hierinne seinem Sohne zu Willen feyn, und forderte ihn von Maria, dem der Vater, wie ihn der Sohn um den Vultejus ansprach, als welcher in Neapel ziemlich selten zu Kaufe war, als ein Buchhändle, sich erinnerte, früher einen abgegeben zu haben. Als Maria vor dem Sohne selbst die Ursache seines Verlangens zu erfahren wünschte, dieser aber sie ihm sagte, daß er nämlich bei den Lectionen des Verde nichts zu thun habe, als das Gedächtniß zu üben, den Verstand aber verurtheilen müsse, dabei müßig zu bleiben, gefiel dem braven, und in solcherlei Dingen einsichtsvollen Manne dieß Urtheil, oder vielmehr der richige und keineswegs jugendliche Sinn des Jünglinges dermassen, daß er dem Vater eine zuversichtliche Weissagung das gute Gedeihen seines Sohnes that, jenem aber den Vultejus nicht lehnte, sondern selbst schenkte, und überdieß noch die Institutiones Canonicae des Heinrich Canisius, weil dieser den Canonisten selbige am besten dargestellt zu haben schien: und so brachte das kluge Wort des Aquadies und die wohlwollende That des Maria Vico auf die richtigen Straßen zu beiden Rechten.




Indem er nun an die einzelnen Capitel des Civilrechts kam, empfand er das höchste Vergnügen über zwey Stücke: zuerst, bei den Haupttheilen der Gesetze zu bemerken, wie von den scharfsinnigen Auslegern |10| zu allgemeinen Maximen des Ge­rechten abgezogen worden die besonderen Motive der Billigkeit, welche die Rechtsgelehrten und die Kaiser hinsichtlich der Gerechtigkeit der Sachen wahrgenommen hatten: welcher Umstand ihm für die alten Ausleger Neigung einflößte, von denen der sofort bemerkte und urtheilte, daß sie die Philosophen der natürlichen Billigkeit seyen: das zweyte, zu beobachten, mit welcher Sorgfalt die Rechtsgelehrten selbst die Worte der Gesetze, der Senatsbeschlüsse, und der Prätoren­edicte, die sie auslegen, erwogen: was ihn für die gelehrten Ausleger einnahm, von denen er sofort bemerkte, und anerkannte, sie seyen reine Geschichtschreiber des römischen bürgerlichen Rechtes: und diese beyden Vergnügungen waren eben so viele Zeichen, die eine, daß er sein ganzes Studium in die Aufsuchung der Principien des allgemeinen Rechts setzen würde; die andere des Ertrages, der ihm aus der lateinischen Sprache erwachsen sollte, vornehmlich in den Sprachge­bräuchen der römischen Rechtsgelehrsamkeit, deren schwie­rigster Theil ist, die Ausdrücke der Gesetze erklären zu können.

Eingeübt wie er war, in beyderlei Institution nach den Grundtexten sowohl des bürgerlichen als des canonischen Rechtes, wollte er, ohne sich zu kehren an die sogenannten Materien, welche innerhalb des Quinquennium des rechtlichen Curses gelehrt werden müssen, sich den Gerichtshöfen widmen, und ward von dem Herrn Don Carlo Antonio di Rosa, einem Rathsherrn von strengster Redlichkeit und Beschützer seines Hauses, die Praxis des Forum zu lernen, zu Herrn Fabrizio del Vecchio geführt, einem höchst achtbaren Sachwalter, welcher nachher als Greis in der höchsten Armuth starb: und um ihn den gerichtlichen Gang besser kennen zu lehren, fügte es das Schicksal, daß kurz darauf seinem Vater ein Proceß von dem geistlichen Collegium zugezogen wurde, unter der Commission Herrn Don Geronimo Acquaviva, welchen er in einem Alter von sechzehen Jahren selbst führte und dann vor der Ruota unter Beifall Herrn Fabrizio del Vecchio selbst mit siegreichem Erfolge verteidigte; durch dessen Ausein­ander­setzung er den Beifall Herrn Pier Antonio Ciavari, eines hochgelahrten Rechtskundigen und Raths jener Ruota, erwarb, so wie er beim Herausgehen die Umarmungen des Herrn Francesco Antonio Aquilante empfieng, eines alten Sachwalters bei jenem Gerichtshofe, der sein Gegner gewesen.

Indeß kann man aus Folgendem, wie aus ziemlich vielen ähnlichen Fällen, |11| leicht einsehen, daß Menschen, die in einigen Zweigen des Wissens einen guten Grund gelegt haben, in anderen sich unter bedauernswürdigen Irrthümern umher­drehen können wegen des Mangels, daß sie nicht geleitet eine lückenlose und sich in allen ihren Theilen entsprechende Erkenntniß:  woher im Geiste Vico's zuerst der Gedanke kam zu einer Darstellung de Nostri Temporis Studiorum Ratione und darauf ausgeführt wurde in dem Werke de Universi Juris uno Principio; davon das andere de Constantia Jurisprudentis ein Anhang ist. Da er nämlich an sich schon von metaphysischer Richtung war, deren Geschäft es ist, das Wahre nach Gattungsbegriffen zu erkennen und es nach bestimmten Unterscheidungen, so genau nach den Arten der Gattungs­begriffe durchgeführt sind, in seinen äußersten Spaltungen auf­zu­fassen; gefiel er sich in den verderbtesten Manieren des modernen Poetisirens, welche sich in nichts anderem ergötzt, als in Verirrungen und im Verkehrten: in welcher Manier Vico dadurch bestärkt wurde, daß, als er sich eines Tags zum Pater Jacob Cubrano begeben, einem Jesuiten von unermeßlicher Gelehrsamkeit und Ansehen in jenen Zeiten, da die geistliche Beredtsamkeit beinahe überall entartet war, um sich dessen Urtheil zu erbitten, ob er in der Poesie vorwärts gekommen, und ihm eine selbst verfertigte Canzone über die Rose zur Verbessserung vorgelegt hatte, dem Pater, der außerdem wohlwollend und höflich war, diese so sehr gefiel, daß derselbe in einem Jahreschweren Alter, und auf dem Gipfel der höchsten Anerkenntniß als großer geistlicher Redner, keinen Anstand nahm, einem Jünglinge, den er niemals zuvor gesehen, auch seiner Seits ein von ihm über denselben Gegenstand verfaßtes Idyllium zu reci­tiren. Indeß hatte Vico diese Art Poesie als eine Geistesübung in Werken des Witzes betrachtet; als welche einzig ergötzt; weil das Verkehrte in einen blendenden Aufzug gehüllt ist, der die gerechte Erwartung der Zuhörer überraschen mag; woher eben so, wie dieselbe bedächtigen und ernsthaften Gemüthern Ueberdruß erregen würde, sie den noch schwachen jugendlichen Vergnügen erregt. Und in der That könnte dieser Irrtum eine fast nothwendige Zerstreuung genannt werden für solche Jünglingsgeister, welche bereits sehr zugespitzt und eingehärtet worden in dem Studium der Metaphysiken: wie denn der Genius auf Abwege gerathen muß für die feurige Kraft des Alters, auf daß er nicht ganz und gar starr werde und vertrockne, und aus einer vor der Zeit angenommenen übermäßigen Bedächtigkeit des Urtheils, wie sie für das reife Alter gehört, hernachmals nichts zu unternehmen wage.
Unterdeß lief er Gefahr, seiner zarten Leibes­beschaffen­heit den Tod an der Schwindsucht zuzuziehen; auch waren theils die Glücksgüter seiner Familie in sehr knappe Umstände gekommen; theils hatte er ein heißes Verlangen |12| nach Ruhe, um seine Studien zu verfolgen; und seinen Geist widerte ungemein das Geräusch des Forums: als es die gute Gelegenheit fügte, daß in einer Bibliothek Monsignor Hieronymus Rocca, Bischoff von Ischia , ein hochberühmter Rechtsgelehrter, wie es dessen Werke beurkunden, mit ihm eine Unterhaltung anfieng über die beste Methode, die Rechtswissenschaft zu lehren; durch welche der Monsignore so befriedigt blieb, daß er bei ihm anfragte, ob er wohl Lust habe, sie seinem Neffen auf einem Schlosse des Cilento, von höchst anmuthiger Lage und vollkommenster Luft, zu lehren. Es sey das eine Besitzung eines seiner Brüder, Herrn Don Domenico Rocca (welchen er nachher als seinen edel­müthigsten Mäcen erprobte, und der sich ebenfalls an gedachter Manier von Poesie ergötzte) : er würde von diesem in allen Stücken ganz wie dessen Kinder behandelt (wie er nachher ihn wirklich behandelte) und daselbst durch die gesunde Luft der Gegend völlig hergestellt werden, auch alle Muße zum Studieren genießen.

So geschah es: denn während eines wohl neunjährigen Aufent­haltes daselbst vollendete er den größten Theil seiner Studien, tiefeindringend in dem der Gesetze und Canones, wozu ihn seine Obliegenheit verpflichtete: und als er dem canonischen Rechte zu Liebe sich weiter auf das Studium der Dogmen verlegt, fand er sich sofort in der rechten Mitte der catholischen Lehre bei der Materie von der Gnade, insonderheit mit Lesung Ricardus, eines Theologen der Sorbonne, den er zufälligerweise aus dem Buchladen seines Vaters mit sich genommen; als welcher nach einer geometrischen Methode die Lehre des heil. Augustinus darstellt wie in der Mitte liegend zwischen zwey Aeußersten, der Calvinistischen und der Pelagianischen, so wie der übrigen Ansichten, welche einer oder der anderen dieser beyden sich annähern: welche Stimmung für ihn wirksam wurde, nachher ein Princip des natürlichen Rechts der Völker zu begründen, das theils brauchbar wäre, die Ursprünge des römischen so wie jedes andere heidnische Zivilrecht von Seiten der Geschichte zu erklären; theils ange­messen der vernünftigen Lehre von der Gnade, von Seiten der moralischen Philosophie. Zu gleicher Zeit veranlaßte ihn Laurenz Valla bei Gelegenheit seines Tadels |13| der römischen Rechtsgelehrten in Hinsicht ihres lateinischen Ausdrucks, das Studium der lateinischen Sprache fortzusetzen, wobei er den Anfang machte mit den Werken des Cicero.


Indem er aber noch voll des Vorurtheiles fürs Poetisiren lebte, begegnete ihm glücklicherweise, daß er in einer Biblio­thek der minderen Brüder von der Observanz auf jenem Schlosse ein Buch in die Hände bekam, an dessen Ende sich, er erinnert sich nicht mehr, ob eine Critik oder eine Apologie eines Epigrammes vorfand von einem wackeren Canonicus des Ordens, mit Namen Massa, wo von den wundervollen poetischen Rhythmen, die sich insonderheit an Virgilius wahnehmen ließen, die Rede war: und er von solcher Bewunderung hingerissen wurde, daß er sich eifrig an das Studium der lateinischen Dichter zu zuvörderst jenes Vornehmsten begab. Als ihm von da an seine Manier des modernen Poetisirens zu misfallen begann, kehrte er zum Betriebe der Toscanischen Sprache zurück, nach deren Hauptgeistern, Boccaccio in der Prosa, Dante und Petrarca in der Dichtkunst: und las in täglicher Abwechselung Cicero, oder Virgilius, oder Horatius, in Vergleichung des ersten mit Boccaccio, des zweyten mit Dante, des dritten mit Petrarca, aus der Absicht, mit unbestochenem Urtheile deren Verschieden­heiten zu erkennen; und lernte daraus, um wie viel in Hinsicht aller drei die lateinische Sprache vor der Italienischen voraus hat: wobei er immer die vorzüglichsten Schriftsteller in folgender Ordnung dreimal las: das erstemal, um die Einheit ihres Planes zu fassen; das zweytemal um die Anknüpfungen und den Fortgang der Gegenstände zu erkennen; das drittemal mehr theilweise, um die schönen Formen der Gedanken und des Ausdrucks zu sammeln, die er in den Büchern selbst anmerkte, ohne sie in Gemeinplätze oder Phrasarien zu­sammen­zutragen: als welches Verfahren er für hinreichend hielt, um dieselben bei Veranlassungen, wo er sich ihrer ihres Ortes erinnerte, auf eine schickliche Weise in Anwendung zu bringen; was der einzige Weg einer guten Darstellung in Gedanken und Ausdruck ist.
Als er sofort in der Poetik des Horatius gelesen, daß der reichhaltigste Vorrath für die Poesie durch das Lesen der Moral­philoso­phen gewonnen wird, legte er sich ernstlich auf die Moral der alten Griechen, und machte den Anfang mit der des Aristoteles, dessen Auctorität er während seiner Lectüre sehr oftmals bei mancherlei Grundsätzen der Institutionen des Civilrechts angezogen gefunden! und bei diesem Studium gewahrte er, daß die römische Rechtsgelehrsamkeit |14| eine Ausübung sey der Billigkeit, welche durch unzähliche einzelne Vorschriften des natürlich Rechten, wie solche von den Rechtsgelehrten innerhalb der Tendenzen der Gesetze und der Absicht der Gesetzgeber aufgesucht worden, gelehrt werde: dagegen die Wissenschaft des Rechten, welche die Moral­philoso­phen vortragen, nach wenigen ewigen Wahrheiten fortschreitet, die auf metaphysischem Wege dictirt werden durch eine topische Gerechtigkeit, welche bei dem Bau der Städte die Stelle der Baumeisterin einnimmt, und den beyden besonderen Gerechtigkeiten, der commutativen und distri­butiven gebietet, als zwo göttlichen Werkmeister­innen, so die Vortheile nach zwey ewigen Maassen abmessen sollen, dem arithmetischen und geometischen, als welche die zwo mathema­tisch erwiesenen Proportionen sind. Womit er inne zu werden begann, wie da weniger als zur Hälfte die Wissenschaft des Rechts erlernt werden mag nach der Methode gewöhnlicher Studien, wie man sie gegenwärtig beobachtet. Er mußte dalher von neuem sich zu der Metaphysik wenden, aber da ihm in diesem Stücke die des Aristoteles, wie er sie bei Suarez gelernt hatte, nicht zu Statten kam, und er die Ursache davon nicht einzusehen wußte, entschloß er sich, geleitet durch den bloßen Ruf, daß Plato der Erste der göttlichen Philosophen sey, ihn für sich selbst zu studieren: und lange nachdem er in ihm vorwärts gekommen war, sah er die Ursache ein, warum ihm die Metaphysik des Aristoteles keine Förderniß gewährt habe für die Studien der Moral, so wie sie von keinem Nutze gewesen dem Averroës, dessen Auslegung die Araber nicht menschlicher und civilisirter gemacht, als sie vorher waren, weil die Metaphysik des Aristoteles auf ein Naturprinzip hinführt, welches Materie ist, aus der sich die individuellen Formen herausbilden; und so Gott zu einem Töpfer macht, welcher die Dinge als außer sich befindlich, hervorbringe: dagegen die Metaphyisk des Plato auf ein Naturprinzip hinführt, welches die ewige Idee ist, die aus sich herausbildet und schafft die Materie selbst, als ein befruchtender Geist der sich selbst das Ei forme. In Gemässheit dieser Metaphysik gründet er seine Moral auf eine ideale Tugend oder ideale Gerechtigkeit als Baumeisterin; zu Folge deren er sich unterwand, einen idealen Staat zu begründen, dem er in seinen Gesetzen ein ebenfalls ideales Recht gab. So daß seit jener Zeit, da sich Vico nicht befriedigt fühlte durch die Metaphysik des Aristoteles, um die Moral gründlich zu begreifen, und sich durch die des Plato zu belehren versuchte, in ihm |15| ohne daß er es merkte, der Gedanke zu erwachen begann, ein ewiges ideales Recht zu begründen, das da geübt würde in einer universalen Gemeinheit nach der Idee oder dem Plane der Vorsehung, zu Folge welcher Idee sofort alle Staaten aller Zeiten, aller Nationenen gegründet sind: welches jener ideale Staat war, den zu Folge seiner Metaphysik Plato hätte begründen müssen, nach der Unwissenheit des ersten gefallenen Menschen aber dieß zu bewirken nicht vermogte.

Zu eben derselbigen Zeit wurden die philosophischen Werke des Cicero, Aristoteles und Plato, welche der Reihe nach ganz geeignet sind, den Menschen in der bürgerlichen Gesellschaft zu regeln, Ursache, daß er keinen oder nur sehr wenigen Geschmack fand an der Moral sowohl der Stoiker als der Epicucureer, als welche beyderseits eine Moral ist für Einsiedler; die der Epicureer, als in ihren Gärtlein verschlos­sener Müssiggänger: die der Stoiker, als auf Empfin­dungs­losigkeit studierender Grübler. Und der Sprung, den er gleich Anfangs gemacht hatte von der Logik zur Metaphysik, bewirkte, daß Vico sich hernachmals wenig kümmerte um die Physik des Aristoteles, des Epicurus und endlich des Renatus Cartesius: woher er sich aufgelegt fand, sich bei der Timäischen Physik, welcher Plato gefolgt ist, zu beruhigen; als welche die Entstehung der Welt aus den Zahlen aufstellt; und bei Verschmähung der Stoischen Physik zu beharren, welche die Welt aus Puncten bestehen läßt; zwischen denen beyden dem Wesen nach eine nicht geringe Verschiedenheit statt findet; wie er nachher sich zum Geschäft machte, dieselbe herzustellen in dem Buche de Antiquissima Italorum Sapientia: und letztlich weder im Scherze noch im Ernste die mechanischen Physiker weder des Epicurus noch des Renatus zuzulassen, als welche beyde von einer falschen Position ausgehen.
Da indeß Vico bemerkte, daß von Aristoteles wie von Plato häufig mathematische Beweise angewendet werden, um die Wahrheiten darzuthun, welche sie in der Philosophie begründen, sah er in diesem Stücke sein Unvermögen ein, ihnen folgen zu können: woher er sich auf die Geometrie zu legen beschloß: und als er bis auf den fünften Satz des Euclides vorgerückt, empfand er bei der Bemerkung, daß der Haupt­inhalt jener Demonstration ist, die Congruenz der Dreiecke zu beweisen, indem einzeln nach jeder Seite und |16| jedem Winkel des einen Dreiecks dargelegt wird, daß sich selbige in gleicher Ausdenung mit jeder Seite und jedem Winkel des anderen decken müssen, in sich selbst die Gewißheit, daß es eine leichtere Sache sey jene einzelnen Wahrheiten, gleichsam nach einem metaphysischen Gattungsbegriffe jener besonderen geometrischen Quantitäten, alle auf einmal zu erkennen. Und so machte er auf eigne Hand die Erfahrung, daß der durch die Metaphysik schon zum Universalen erhobenen Geistern jenes kleinfügigen Köpfen eigens zugehörige Studium nicht gelingt; und unterließ demnach es zu verfolgen, da es seinen durch reichlichen Betrieb der Metaphysik schon im Unendlichen der Gattungsbegriffe zu schweifen gewöhnten Geist in Fesseln und Beschränkungen legte; und durch anhaltende Lesung der Redner, Geschichtschreiber und Dichter vergnügte er seinen Genius, in den entlegensten Erscheinungen Schleifen aufzu­finden, die in irgend einem gemeinsamen Bereiche sie zusammen­knüpften ; welches die schönen Nesteln der Bered­samkeit sind, die den Scharfsinn angenehm erwecken.


«So daß mit Recht die Alten die Geometrie für ein Studium zur Bechäftigung der Kinder hielten, und von ihr urtheilten, sie sey eine für jenes zarte Alter geeignete Logik, da je leichter solches die Einzelheiten auffaßt, und sie genau zu ordnen versteht, desto schwerer es die Gemeinbegriffe der Dinge begreift: und Aristoteles selbst, wie sehr er auch aus der herkömmlichem Methode der Geometrie die Kunst der Syllogistik abstrahirte, dieß doch selbst zugibt, wenn er behauptet, daß den Kindern die Sprachen, die Geschichte und Geometrie gelehrt werden müssen, als Materien, welche vornehmlich geeignet sind, derselben Gedächtniß, Phantasie und Scharfsinn zu üben. Daraus läßt sich leicht einsehen, mit welchem Nachtheile, mit welchem Erfolge für die Jugend heutzutage von einigen in der Methode zustudieren zwo höchstverderbliche Verfahrungsweisen angewendet werden: die eine, daß den kaum aus der Schule der Grammatik getretenen Kindern die Philosophie eröffnet wird, mit der sogenannten Logik des Arnaldus, die da ganz mit den nachdenklichsten Urtheilen über esoterische Materien höherer und vom gewöhnlichen allgemeinen Menschenaverstande entfernter Wissenschaften angefüllt ist: womit man in den Jüng­lingen jene Gaben des jugendlichen Geistes zusammen­reißt, deren jede durch eine eigene Kunst geregelt und gefördert werden müßte, wie das Gedächtniß durch das Studium der Sprachen, die Phantasie durch Lesung der Dichter, Geschichtsschreiber und Redner, der Scharfsinn durch die Elementargeometrie; welche gewissermassen eine Mahlerkunst ist, die das Gedächtniß durch die große Zahl ihrer Elemente stärkt; die Phantasie durch ihre reinen Figuren, als durch ebensoviele in den feinsten Linien dargestellte Zeichnungen, veredelt; und den Scharfsinn durch die Notwendigkeit sie alle zu durchlaufen, und unter allen diejenigen zusammen­zulesen, |17| welche nöthig sind, um die verlangte Größe zu beweisen, entwickelt: und alles dieß, um für die Zeit des reifen Urtheiles eine wohlredenbe, lebendige und geistreiche Erkenntniß zu erzeugen. Während aber durch jene Logiker die jungen Leute vor der Zeit zur Critik geführt werden, was so viel heißt, als geführt werden richtig zu urtheilen, ehe sie es richtig gelernt haben, gegen den natürlichen Lauf der Ideen, welche zuerst lernen, hernachmals urtheilen, und zuletzt philosophiren, wird die Jugend trocken und dürr im Ausdrucke, und ohne jemals etwas zu leisten, will sie über alles urtheilen. Wenn sie sich dagegen in dem Alter der Geistesblüthe, welches die Jünglingszeit ist, auf die Topik verlegte, was die Kunst ist zu erfinden, die da lediglich das Vorrecht ist der mit Genie begabten,» (wie Vico durch Cicero aufmerksam gemacht, sich auf die des Cicero verlegte) «würden sie sich die Materie verschaffen, um hernachmals richtig zu urtheilen: sintemal man nicht richtig zu urtheilen vermag, wenn einem nicht das Ganze des Gegenstandes bekannt ist, und die Topik die Kunst ist, in einem jeglichen Gegenstand Alles, was in selbigem ist, aufzufinden: und so würden durch die Natur selbst die Jünglinge dazu gelangen, sich zu Philosophen und Wohlredenden zu bilden. Die zweyte Verfahrungs­weise ist, daß den jungen Leuten die Elemente der Wissenschaft von den Größen nach der algebraischen Methode beigebracht werden, welche allen noch so großen Reichthum der jugenblichen Anlagen erstarren macht, ihnen die Phantaste abstumpft, das Gedächniß raub, den Scharfsinn schwächt, den Verstand erschlafft, vier Eigen­schaf­ten, die doch so höchst notwendig sind für die Ausbildung edlerer Humanität, die erste für die Mahlerei, Bildhauerkunst, Baukunst, Musik, Dichtung und Beredtsamkeit; die zweyte für die Sprachgelehrsamkeit und Geschichte; die dritte für die Erfindungen; die vierte für die Lebensklugheit. Es scheint aber diese Algebra eine Arabische Erfindung, die natürlichen Zeichen der Größen auf gewisse willkührliche Ziffern zurückzubringen, wie denn die Araber die Zeichen der Zahlen, die bei den Griechen und Lateinern deren Buchstaben waren, als welche bei beyden, wenigstens die großen, regelmäßige geometrische Linien sind, auf zehen ganz individuelle Ziffern zurückführten. Und so wird mit der Algebra der Geist gedrückt, weil sie nichts sieht, als das Eine, welches ihr vor den Füßen ist: sie macht das Gedächtnis stumpf, weil sie, sobald das zweyte Zeichen gefunden ist, sich nicht weiter um das erste bekümmertet: sie blendet die Phantasie; weil sie auch gar nichts imaginirt: sie unterrichtet nicht den Verstand; weil sie sich zum Errathen bekennt: so daß die Jünglinge, welche viel Zeit auf sie gewendet haben, späterhin bei der Practik des bürgerlichen Lebens zu ihrem größten Verdruße und Reue sich für dasselbe nicht brauchbar finden. Um daher einigen Nutzen zu gewähren, und um keinen dieser so bedeutenden Nachtheile herbeizuführen, sollte die Algebra auf kurze Zeit am Ende des mathematischen Cursus gelernt werden, und man sich ihrer bedienen, wie die Römer sich ihrer Zahlen bedienten, indem sie bey unermeßlichen Summen sie durch Puncte bezeichneten; so würden wir da, wo bei Auffindung von verlangten Größen unser menschlicher Verstand verzweifeln mußte, die Anstrengung mit der Synthetik zu bestehen, sodann |18| zu dem Orakel der Analytik unsere Zuflucht nehmen. Denn soweit es zu einer gründlichen Speculation mit dieser Art von Methode frommt, ist es besser, die metaphysische Analytik in Anwendung zu bringen; und bei jeder Frage suche man das Wahre auf im Unendlichen des Seyenden; sodann entferne man nach den Gattungsbegriffen der Substanz stufenweise, was die Sache nicht ist durch alle Arten der alle Arten der Gattungsbegriffe hindurch, bis man auf den letzten Unterschied kommt, welcher das Wesen der Sache veststelle, die man zu erkennen begehrt» (Diese etwas lange Abschweifung ist eine jährige Vorlesung Vico's für die Jünglinge, daß sie Auswahl und Gebrauch von den Wissenschaften machen lernen für die Beredtsamkeit.)

Um jetzt wieder auf den Weg zu kommen: unverhüllt, wie ihm war, daß das ganze Geheimniß der geometrischen Methode darinne bestehen, zunächst die Ausdrücke zu erklären, mit denen man zu erörtern habe; sodann einige algemeine Grundsätze aufzustellen, über welche derjenige, mit dem man erörtert, einverstanden sey; endlich, wo es Noth thut, etwas befeiden zu heischen, was der Natur nach könne zugestanden werden, damit die Erörterungen gelingen mögen, als welche ohne irgendeine Voraussetzung nicht zum Ziele kommen würden: und nach diesen Principien von erwiesenen einfachen Wahrheiten streng genau zu den zusammen­gesetztes­ten fortzuschreiten, die zusammen­gesetzen indeß nicht zu behaupten, bevor nicht einzeln die Theile geprüft worden, welche sie zusammen­setzten: hielt er nur soviel für nützlich, erkannt zu haben, wie die Geometer in ihren Erörterungen verfahren; damit, wenn er je einmal jener Erörterungsweise bedürfen sollte, er ihrer mächtig wäre, wie er denn späterhin ernstlich von ihr Gebrauch gemacht in dem Werke des Universi Juris uno Principio, von dem Herr Johann Clericus geurtheilet hat, es sey nach einer streng mathematischen Methode angelegt, wie seines Ortes wird erzählt werden.
Um nun nach der Ordnung die Fortschritte Vico's in den Philosophieen zu erkennen, ist es hier nötig, ein wenig rückwärts zu gehen, da zu der Zeit, in welcher er von Neapel abgereist war, die Philosophie des Epicurus nach Peter Gassendi aufzukommen begonnen, und er zwey Jahre darauf die Nachricht erhielt, wie die Jugend sich deren Bearbeitung mit vollen Segeln hingegeben: woher in ihm |19| der Gedanke erwachte, sie aus Lucretius kennen zu lernen, bei dessen Lesung er inne ward, daß Epicurus, als der mit der Leugnung, daß die Seele von einer anderen Gattung der Substanz, denn der Körper sey, aus Mangel einer guten Metaphysik von beschränkter Seele geblieben, zum Princip seiner Philosophie setzen mußte den Körper als schon geformt und getheilt in vielgestaltige letzte Theile, die wieder zusammen­gesetzt sind aus anderen Theilen, welche er aus Mangel eines dazwischen befindlichen Leeren sich als untheilbar dachte: was eine Philosophie ist, welche die engen Geister der Kinder und die schwachen der Weiblein befriedigen mag. Und obschon er von Geometrie auch gar nichts weiß, zimmert er bei allem dem nach einer richtigen und geordneten Reihe von Folgerungen über einer mecha­nischen Physik eine ganz finnliche Metaphysik, dergleichen aufs Haar die des Johann Locke seyn würde, und eine Moral des Vergnügen, gut für Menschen, welche in Einsamkeit leben müssen, wie er dieß denn wirklich denen befahl, welche sich zu seiner Secte bekennen würden: und um ihm sein Recht zu thun, so sah Vico mit wie vielem Ergötzen er von jenem die Formen der körperlichen Natur erklärt sah, mit eben so vielem Lächeln oder Mitleid ihn in die harte Nothwendigkeit versetzt, sich tausend Albernheiten und Possen zu überlassen, um die Weisen zu entwickeln, wie die menschliche Seele ihre Wirksamkeit übe. Woher dieß allein schon ihm zu einem großen Beweggrund wurde, sich mehr und mehr in den Lehrsätzen des Plato zu bevestigen: als welcher aus der Form unserer menschlichen Seele selbst, ohne daß irgend eine Hypothese, als Princip aller Dinnge die ewige Idee aufstellt, nach der Erkenntnis und dem Bewußtseyn, die wir von uns selbst haben, daß in unserer Seele gewisse ewige Wahrheiten liegen, die wir nicht verkennen oder hinwegleugnen können, und die folglich nicht von uns herrühren: daß wir aber übrigens in uns eine Freiheit empfinden, alle die Dinge, welche Abhängigkeit vom Körper haben, indem wir sie verstehen, hervorzubringen, und darum sie hervor­bringen in der Zeit, das heißt wenn wir unsere Aufmerksamkeit auf sie richten wollen, und sie alle hervor­bringen im Erkennen, und sie alle besitzen in uns, wie die Bilder mittelst der Phantase, die Erinnerungen mittelst des Gedächt­nisses, mittelst des Begehrungsvermögens die Leidenschaften, die Gerüche, die Geschmäcke, die Farben, die Töne, die Gefühle oder Empfindungen: und alle diese Dinge in uns besitzen, aber kraft der ewigen Wahrheiten, welche nicht von uns herrühren, und in keiner |20| Abhängigkeit von unserem Körper stehen, einsehen müssen, daß das Prinzip aller Dinge sey eine ewige ganz von dem Körper getrennte Idee, welche in ihrer Erkenntniß, sobald sie will, alle Dinge in der Zeit erschafft, und in sich enthält, und sie enthaltend sie erhält. Von welchem philosophischen Principe aus er für die Metaphysik veststellt, daß die abstracten Substanzen mehr Realität haben, als die körperlichen: daraus herleitet eine Moral, welche gänzlich wohl geordnet ist für das Bürgerthum: woher die Schule des Socrates theils an sich, theils durch ihre Nachfolger die größten Lichter Griechenlands beydes, sowohl in den Künsten des Friedens als des Krieges geliefert hat, und ihren Beifall gibt der Timäischen Physik, das ist der des Pythagoras, welch die Welt aus Zahlen bestehen läßt, die in einem bestimmten Verhältnisse abstracter sind als die metaphysischen Puncte, auf welche Zeno verfiel, um nach ihnen die Natur der Dinge zu erläutern, wie sofort Vico in seiner Metaphysik es beweist, nach dem, was weiterhin darüber wird gesagt werden.

Nach Verfluß einiger anderen Zeit erfuhr er, daß den Preis erstiegen die Experimentalphysik, um welche überall Robert Boyle gefeiert wurde: wie sehr er aber dieselbe für die Arzenei­kunde und Experimentirkunst ersprießlich hielt, so sehr wollte er sie fern von sich, theils weil sie nichts beitrug zur Philosophie des Menschen, theils weil sie sich in barbarischen Manieren ausdrücken mußte: und er vornehmlich sein Augenmerk richtete auf das Studium der römischen Gesetze, deren Haupt­grundlage die Philosophie der menschlichen Sitten, so wie die Wissenschaft der römischen Sprache und Verfassung sind, welche einzig aus den lateinischem Schriftstellern gelernt werden kann.

Gegen das Ende seiner Einsiedlerschaft, welche wohl neun Jahre dauerte, erhielt er die Kunde, daß den Ruhm alle früheren verdunkelt habe die Physik des Renatus Cartesius: so daß er entflammt wurde, ihre Bekanntschaft zu machen: wie er denn durch eine anmuthige Täuschung die Ansichten derselben schon längt gehabt hatte: denn er hatte aus dem Buchladen seines Vaters unter seinen anderen Büchern auch die natürliche Philosophie des Heinrich Regius mitgenommen, unter dessen Maske Cartesius sie Anfangs zu Utrecht an's Licht gestellt: als er sodann nach Lucretius sein Studium auf Regius gewandt, einen Philosophen, der seiner Kunst nach Arzt war, und bewieß, |21| daß er keine andere Gelehrsamkeit besitze als mathematische, hielt er ihn für einen Mann von nicht geringere Unkunde in der Metaphsik als Epicurus gewesen war, der doch von Mathematik nie etwas wissen wollte: denn derselbe nimmt in der Natur ein Princip von nicht minder falscher Voraussetzung an, den schon geformten Körper, was bloß in soweit von dem des Epicurus abweicht, daß jener die Theilbarkeit des Körpers in den Atomen abschließt, dieser seine drei Elemente ins Unendliche theilbar macht: jener die Bewegung in das Leere setzt, dieser in das Erfüllte: jener anhebt seine unendliche Welte zu bilden von einer zufälligen Abweichung der Atome von der nach unten zugehenden Bewegung ihres eigenen Gewichtes und ihrer Schwerkraft: dieser bei der Bildung seiner unendlichen Wirbel ausgeht von einem Anstoße, der an ein Stück der unthätigen und daher noch nicht getrennten Materie gebracht worden, welche er mit der an sie gebrachten Bewegung der Theile scheide, und da sie durch ihre eigene Masse getrennt sey, in die Nothwendigkeit setze, sich zur Bewegung in gerader Richtung zu zwingen; und da sie dieß nicht durch ihren vollen Raum könne, sofort sich nach ihren Theilen gesondert, um das Centrum eines jeden dieser ihrer Pfeile zu bewegen. Wie daher von wegen der zufälligen Abweichung seiner Atome Epicurus die Welt der Willkühr des Zufalls überläßet, so schien es Vico von wegen der Nothwendigkeit, daß die Urkörperchen des Renatus sich zur geraden Richtung zwingen sollen, dieß System möge bequem seyn für diejenigen, so die Welt dem Schicksal unterwerfen; und bei diesem seinen Urteile belustigte es ihn denn hernachmals, als er wieder gen Neapel kam und erfuhr, daß die Physik des Regius von Renatus sey, und jetzt ebenden desselben metaphysische Speculationen angefangen in Ruf zu kommen. Denn wie der nach Ruhm äußerst geizende Renatus mit seiner Physik, die er nach einem der des Epicurus ähnlichen Plane aufgebaut, und das erstemal auf den Lehrstühlen einer der der berühmtsten Universitäten von Europa, dergleichen die von Utrecht ist, durch einen ärztlichen Physiker erscheinen lassen, sich unter den Professoren der Arznei­kunde berühmt zu machen gestrebt hatte; so zeichnete er hernachmals einige erste Linien der Metaphysik in der Manier des Plato, wo er sich Mühe gibt, zwo Gattungen der Substanzen aufzustellen, die eine ausgedehnt, die andere intelligent, um ein Agens über die Materie nachzuweisen, welches nicht Materie sey: wie |22| es der Gott des Plato ist; um eines Tages das Königthum auch in Klöstern zu haben: denn obschon die daselbst seit dem eilften Jahrhundert eingeführte Metaphysik des Aristoteles mit dem, was dieser Philosoph von dem Seinigen zugethan, vorher den gottlosen Averroisten gedient: so hatte doch gleichwohl, da ihre Basis die des Plato ist, die christliche Religion sie leichtlich nach den frommen Ansichten ihres Meisters gebogen, und ist daher, wie sie Anfangs mit der Platonischen bestand, bis zum eilften Jahrhundert, von da an hernachmals mit der Aristote­lischen bestanden. Und wirklich hörte dies Vico, als er gerade in dem Augenblicke da die Cartesianische Physik mit dem wärmsten Eifer angepriesen wurde, nach Neapel zurückgekehrt oftmal behaupten von Herrn Gregorio Calopreso, einem großen Cartesianer, dem Vico sehr theuer war. Indeß bei aller Einheit ihrer Theile fügt sich doch die Philosophie des Renatus keineswegs zu einem System zusammen; denn zu seiner Physik würde ein Metaphysik gehören, welche eine einzige Gattung körperliche, wie gesagt ist, nach Nothwendigkeit wirkender Substanz aufstellte; wie zu der des Epicurus eine einzige Gattung körperlich, nach Zufall wirkender Substanz: so wie darenne Renatus mit Epicurus wohl übereinkommt, daß alle die unendlichen mannichfachen Formen der Körper Modificationen sind der körperlichen Substanz, die dem Wesen nach Nichts sind. Auch, zeitigte seine Metaphysik im geringsten keine Moral, welche zur christlichen Religion stimmte: denn nicht nur bilden dieselbe die wenigen Erörterungen nicht, die er zerstreut darüber geschrieben; und die Abhandlung über die Leiden­schaften gehört eher in die Arzneikunde, als in die Moral: sondern auch der Pater Malebranche wußte nach ihr kein System der christlichen Moral auszuarbeiten; und die Gedanken von Pascal sind gleichfalls einzelne Lichter. Eben so wenig geht aus seiner Metaphysik eine eigenthümliche Logik hervor; denn Arnaldus begründet die seine auf der Basis der Aristotelischen. Und endlich dient sie selbst der Arzneikunde nicht: denn der Mensch des Renatus wird von den Zergliederern in der Natur nicht gefunden. So daß gegen die des Renatus gehalten eher die Philosophie Epicurus sich zu einem Systeme schließt, obgleich er nichts von Mathematik verstand. Aus allen diesen Gründen, auf welche Vico allmählich aufmerksam wurde, freute er sich im Stillen nicht wenig, daß wie er bei Lesung des Lucretius mehr |23| auf die Seite der platonischen Metaphysik getreten, er bei der des Regius sich mehr in derselben bevestiget.

Diese Physiken waren für Vico gleichsam Zerstreuungen von den tiefsinnigen Speculationen über die platonischen Metaphysica, und dienten ihm, um die Phantaste ausruhen zu lassen bei seinen poetischen Studien, worinne er sich öfters mit Ausarbeitung von Canzonen übte, während er noch nach seiner ersten Angewöhnung in Italischer Zunge, jedoch unter dem Augenmerke dichtete, in dieselbe nach Vorgange der besten Toscanischen Dichter lichtvolle lateinische Ideen überzuleiten: wie er nach dem Panegyricus, der von Cicero für Pomejus dem Großen in der Rede üder das Manilische Gesetz eingewebt ist, einer Rede, dergleichen in dieser Gattung es keine gediegenere in der ganzen lateinischen Sprache gibt, zur Nachahmung der drei Schwestern des Petrarca einen Panegyricus in drei Canzonen unternahm zu Ehren des Churfürsten Maximilian von Baiern, welche in der Auswahl Italienischer Dichter von Herrn Lippi, gedruckt zu Lucca im Jahre 1728 vorkommen; so wie in der des Herrn Acampora von Neapolitanischen Dichtern; gedruckt zu Neapel im Jahre 1701 eine andere Canzone vorkommt auf die Vermählung der Frau Donna Hippolita Cantelni di Duchi di Popoli mit Don Vincenzo Carafa, Herzog von Bruzzano, und jetzt Fürst von Roccella: welche er nach dem höchst anmuthigen Gedichte des Catullus Vesper adest: dichtete; von dem er hernachmals las, daß es vor ihm Torquato Tasso ebenfalls in einer Canzone über einen ähnlichen Vorwurf nachgeahmt: und Vico freute sich, davon früher keine Kenntnis gehabt zu haben; theils aus Verehrung für einen solchen und so großen Dichter; und weil er, wenn er bereits davon unterrichtet gewesen, weder gewagt, noch sich ergötzt haben würde, sie auszuarbeiten. Außer diesen componirte Vico über die Idee des größesten Jahres bei Plato, über welches sich Virgilius in seiner äußerste gelehrten Ecloge Sicelides Musae: verbreitet, eine andere Canzone bei der Vermählung des Herrn Herzogs von Baiern mit der Prinzessin Therese von Pohlen, welche im ersten Theile der Auswahl Neapolitanischer Dichter von Herrn Albano, gedruckt zu Neapel im Jahre 1723. befindlich ist.


Mit dieser Gelehrsamkeit und mit dieser Bildung begab sich Vico nach Neapel zurück, wie ein Reisender in sein Vaterland, |24| und fand daselbst bei den gelehrtesten Männern von Gewicht die Physik des Renatus eben in der höchsten Würdigung: die des Aristoteles war theils durch sich selbst, vielmehr aber noch durch die ausschweifenden Umge­staltungen der Scholastiker bereits zum Ammenmährchen geworden: die Metaphysik, die seit funfzehnhundert zum erhabensten Range in der Litteratur die Marsilius Ficinus, die Picus von Mirandola, die beyden Augustine, sowohl Niphus als Steuchius, die Jacob Mazzoni, die Alexander Piccolomini, die Matteo Acquaviva, die Franz Patricius erhoben, und soviel beigetragen hatte zur Poesie, zur Geschichte, zur Beredtsam­keit, daß ganz Griechenland von der Zeit, da es am gebildetsten und beredtesten war, in Italien wieder auferstanden zu seyn schien, hielt man würdig, in der Gesangenschaft der Klöster zu leben; und von Plato ward nur hin und wieder eine Stelle zum Behufe der Poesie angeführt, oder um mit Gedächtnißweisheit zu prangen: die scholastische Logik ward verurtheilt, und an ihre Stelle die Elemente des Euclides zu setzen für gut befunden: die Arzneikunde war durch die häufigen Veränder­ungen in den Systemen der Physik in den Scepticismus versunken: und die Aerzte hatte begonnen stehen zu bleiben bei der Acatalepsie oder Unbegreiflichkeit des Wahren in Hinsicht der Natur der Krankheiten, und sich zurück­zuziehen auf die Epoche oder Zurückhaltung der Zustimmung bei Ertheilung der Urtheile und Anwendung wirksamer Heil­mittel: und die Galenik, welche vorher ausgebildet durch die griechische Philosophie und die griechische Sprache, so viele unvergleichliche Aerzte geliefert hatte, war wegen der großen Unwissenheit ihrer Anhänger während dieser Zeiten in die größte Verachtung gerathen: die alten Ausleger des bürger­lichen Rechtes waren von ihrer hohen Achtung den Academieen zugefallen, und moderne Gelehrte zu derselben emporgestiegen mit großem Nachtheile für das Forum: denn wie sehr diese notwendig sind für die Critic der römischen Gesetze, eben so sehr bedarf man jener für die gesetzliche Topik in Sachen von zweifelhafter Billigkeit. Der hochgelehrte Herr Don Carlo Buragna hatte die löbliche Weise einer guten Dichtung wieder eingeführt; aber er hatte sie in zu enge Schranken gezwängt innerhalb der Nachahmung des Govanni della Casa, nichts weder im Zarten noch im Starken herleitend aus den griechischen oder lateinischen Quellen, oder den lauteren Bächen der Rime des Petrarca, noch aus den gewaltigen Bergströmen der Canzonen |25| des Dante: der belesene Herr Don Lionardo da Capova hatte die ächte Toscanische Prosa wieder aufgeweckt und mit aller Anmuth und Geschmeidigkeit umkleidet: aber trotz dieser Tugend vernahm man keine Rede beseelt von griechischer Weisheit in Behandlung der Sitten, oder gekräftigt durch römische Großheit in Erregung der Leidenschaftn: und endlich der lateinisch unvergleichliche Herr Thomas Cornelio hatte mit seinen äußerst reinen Progymnasmen die Geister der Jünglinge vielmehr ver­schüch­tert, als tüchtig gemacht die lateinische Sprache späterhin zu vervollkomnen. So daß aller dieser Dinge wegen Vico es segnete, keinen Meister gehabt zu haben, auf dessen Worte er hätte schwören mögen, und dankbar jene Wälder prieß, innerhalb deren er, von seinem guten Genius geleitet, den Hauptcurs seiner Studien gemacht hatte, ohne eine Neigung für eine Secte und nicht in der Stadt, wo wie eine Kleidermode alle zwey oder drei Jahre der Geschmack in den Wissenschaften wechselte. Durch die herrschend Verwahr­losung der guten lateinischen Prosa aber wurde er bestimmt, sie nur desto sorgfältiger auszubilden: und da er in Erfahrung gebrach, daß Cornelio in der griechischen Sprache nicht stark sey, noch die Toskanische gepflegt, und sich gar nicht, oder äußerst wenig mit Kritik abgegeben habe: vielleicht, weil er bemerkt hatte, daß die Polyglotten wegen der Vielfältigkeit der Sprachen, die sie verstehen, niemals einer derselben vollkommen mächtig sind; und die Critiker die Vorzüge der Sprachen nicht erfassen, weil sie immerdar sich mit Auf­zeich­nung der Fehler an den Schriftstellern beschäftigen; beschloß Vico die griechische, in welcher er sich mit den Rudimenten des Gresserus, die er in der zweyten Classe der Jesuiten erlernt, fortgeholfen hatte, und die Toscanische Sprache zu verlassen (aus welchem Grunde er auch nie die Französische lernen wollte), und sich ganz in der lateinischen zu bevestigen: da er nicht minder bemerkt, daß mit Erscheinung der Lexica und Commentare die lateinische Sprache in Verfall gerathen; beschloß er, der Art Bücher niemals in die Hände zu nehmen, mit einziger Ausnahme des Nomenclator von Junius für das Verständniß der Kunst­ausdrücke; die lateinischen Schrifsteller aber ohne alle Anmer­kungen, mit philosophischer Critic in ihren Geist eindringend, zu lesen; so wie es die lateinischen Schriftsteller des sechzehnten Jahrhunderts gethan hatten; unter denen er Jovius bewunderte |26| wegen der Beredtheit, und Nauger wegen der Feinheit des Wenigen, was er darin hinterlassen und das wegen dessen sehr zierlichen Geschmackes uns den großen Verlust, den wir an seiner Geschichte erlitten, beseufzen läßt.



Aus diesen Gründen lebte Vico nicht nur wie ein Fremder in seinem Vaterlande, sondern selbst ganz unbekannt. Jedoch hinderte diese seine Ansichten und einsamen Beschäftigungen nicht, daß er von weiten gleichsam als Gottheiten der Weisheit die in Kenntniß der Wissenschaft, in altem Ansehen stehenden Männer verehrte und mit wohlanständigem Kummer anderen Jünglingen das Glück ihres Umgange beneidete. In dieser Stimmung nun, welche nothwendig ist für die Jugend, wenn sie weiter schreiten, und nicht auf das Wort hämischer oder unwissender Meister hin für das ganze Leben mit einem Wissen nach Laune und Maasstab eines Anderen befriedigt bleiben will, wulde er zuerst zween hochgeachteten Männern bekannt; der erste war der Theatiner Vater Don Cajetan di Andrea, welcher nachdem als Hochwürdigster Bischoff starb, Bruder der Herren Franz und Januarius, beyde von unsterblicm Namen; welcher in einer Unterhaltung, die in einer Bibliothek, Vico mit ihm hatte über die Geschichte der canonischen Sammlungen, ob er verheiratet sey? Und als Vico mit Nein geantwortet, hinzufügte, ob er Theatiner werden wolle? Worauf, als dieser antwortete, er sey nicht von adelicher Geburt, jener erwiederte, dieß mache nichts aus, er selbst werde ihm darüber Dispensation von Rom erwirken: als sich hier Vico durch so viel Ehre von Seiten des Vater verpflichtet sah, entdeckter er ihm, daß er arme und alte, jeder anderen Hoffnung beraubte Aeltern habe: und als auch da der Pater entgegnete, die Gelehrten seyen ihren Familien eher zu Last als zum Vortheile, beschloß Vico, vielleicht könne es mit ihm das Gegentheil seyn; der Pater aber endete mit den Worten: dieß ist nicht Euer Beruf! — Der andere war Herr Don Joseph Lucina, ein Mann von unermeßlicher griechischer, lateinischer, Toscanischer Gelehrsamkeit in allen Fachern menschlichen und göttlichen Wissens; welcher nach Anstellung eines Versuches, was an dem Jünglinge sey, auf eine edle Weise bedauerte, daß man von ihm keinen zweckmäßigen Gebrauch in der Stadt mache: als sich ihm |27| eine schöne Gelegenheit darbot, ihn zu befördern, da Herr Don Niccolo Caravita, durch den Scharfsinn des Geistes, durch Strenge des Urtheils, und durch Reinigkeit des Toscanischen Styles der erste Sachwalter bei den Gerichtshöfen und großer Gönner der Gelehrten eine Sammlung von Dichtungen zum Lobe des Herrn Grafen von San Stephano, Vicekönig von Neapel bei dessen Abreise veranstalten wünschte: welches die erste war, die in Neapel zu unserer Zeit hervortrat; und innerhalb der beschränkten Zeit von wenigen Tagen schon gedruckt seyn sollte. Hier schlug Lucina, der bei allen im höchsten Ansehen stand, ihm Vico für die Rede vor, welche den anderen Inhaltsstücken vorausgehen sollte: und als er von jenem hiezu Auftrag erhalten, überbrachte er solchen ihm selbst, wobei er ihm die Gunst des Anlaßes darstellt, auf eine vortheilhafte Weise zur Bekanntschaft eines Beschützers der Wissenschaften zu gelangen, wie er jenen selbst als einen größesten erprobt: wonach der Jüngling von selbst das höchste Verlangen trug: und so arbeitete er, weil er auf das Toscanische verzichtet hatte, für jene Sammlung eine lateinische Rede aus, in Josephs Roselli's ausdrücklichem Verlage, im Jahre 1696. Von da an begann er in den Ruf eines Gelehrten zu kommen: und unter anderen pflegte ihn der oben von uns mit Ehren erwähnte Herr Gregor Calopreso, wie von Epicurus gesagt worden, den Autodidascalos oder Lehrmeister sein selbst zu nennen. Bei dem Leichebegängnisse der Donna Catharina von Aragon, Mutter des Herrn Herzogs von Medinaceli, Vicekönigs von Neape darauf, wo der sehr gelehrte Herr Carlo Rossi die griechische, Don Emanuel Cicatelli, berühmter Canzelreder, die Italienische, schrieb Vico die lateinische Rede, die mit den übrigen Gelegenheitsschriften in einem Foliobande gedruckt ist.







Als kurz darauf der Lehrstuhl der Rhetorik durch den Tod des Professors erledigt worden, von Einkünften freilich nicht höher als jährlich hundert Scudi mit dem Zuschuß einer anderen geringeren unbestimmten Summe, welche aus den Gebühren für die Zeugnisse einläuft, mit denen dieser Professor die Studenten für das Rechtsstudium einführet, und. ihm von Herrn Cararita gerathen worden, er solle illico darum als Mitbewerber auftreten, er aber es ablehnte, weil ein anderes Gesuch, das er wenige Monate vorher gethan hatte, als Stadtschreiber, |28| ihm fehlgeschlagen war; sagte ihm Herr Don Niccolo, nachdem er ihn scherzhaft getadelt als einen Menschen von wenig Geist (wie er dieß in der That ist in Dingen, welche auf Vortheile hinauslaufen) er solle sich nur dazu entschließen, die deßfallsige Vorlesung zu halten: so warb sich Vico darum mit durch einer einstündigen Lection über die ersten Zeilen des Fabius Quintilianus in dem sehr langen Capitel de statibus caussarum, wobei er sich auf die Etymologie und die Unterschiede des Wortes Status mit griechischer und lateinischer Belesenheit und Critik, beschränkte; wodurch er denn sich deren Übertragung mit einer bedeutenden Stimmenmehrzahl errang.
Unterdeß hatte der Herr Vicekönig, Herzog von Medina­celi, in Neapel einen seit den Zeiten Alphons von Arragonien nicht mehr gesehenen Glanz der schönen Wissenschaften hergestellt durch eine Academie für deren Emporbringung, aus der Blüthe der Gelehrten, die ihm von Don Federico Pappacoda, einem Neapolitanischen Edelmanne von gutem Geschmack in den Wissenschaften und großem Schätzer der Gelehrten, und von Don Niccolo Caravita vorgeschlagen war: woher Vico, weil bei dem Adelstande die elegantere Litteratur in die höchste Aufnahme zu kommen begonnen hatte, um somehr von der Ehre gespornt, unter diese Academiker gezählt worden zu seyn, sich ganz und gar zum Studium der Humanioren wendete.

Es kommt aus Folgendem, daß das Glück ein Freund der Jünglinge genannt wird: weil sie nämlich das Loos ihres Lebens nach den Künsten oder Hanthierungen erwählen, welche während ihrer Jugend blühen: da aber die Welt ihrer Natur nach von Jahr zu Jahr ihren Geschmack ändert, findet sich hernachmals, daß sie als Greise stark sind in demjenigen Wissen, welches nicht mehr gefällt, und folglich nichts mehr hilft. So begiebt sich mit Einem Male eine große Umwälzung des wissenschaftlichen Zustandes in Neapel; denn während man glaubte, es müßten daselbst auf lange Zeit alle edleren Wissen­schaften des sechszehnten Jahrhunderts wieder heimisch werden, trat mit der Abreise des Herzog Vicekönig daselbst eine andere Ordnung der Dinge ein, um sie in kürzester Zeit der Vernichtung zu überliefern, da gegen alle Erwartung jene trefflichen Gelehrten, welche zwey oder drei Jahre zuvor behauptet, die Metaphysik müßte |29| in den Klöstern verschlossen bleiben, selbst mit vollen Segeln sich ihrem Studium hingaben: nicht zwar nach den Platonen und Plotinen, mit den Marsilius, wodurch diesebe seit funfzehnhundert so große gelehrt hatte, sondern nach den Meditationen des Renatus Cartesius: welche sein Buch über die Methode begleitet: in dem er die Studien der Sprachen, der Redner, der Historiker und der Dichter verwirft: und einzig allein seine Metaphysik, Physik und Mathematik emporhebend die Litteratur zurückführt auf das Wissen der Araber, die in allen diesen dreien Fächern sehr gelehrte Männer hatten, wie den Averroes in der Metaphysik, und so viele berühmte Sternkundige und Aerzte, welche in beyden Wissenschaften selbst die Wörter geschaffen, die da nöthig sind, sich in ihnen auszudrücken. Es mußten daher den Gelehrten, wenn sie auch große Köpfe waren, weil sie zuvor sich sämmtlich und lange Zeit mit corpuscularen Physiken, mit Versuchen und mit Maschinen beschäftiget, die Meditationen des Renatus höchst abstrus vorkommen, weil sie die Geister von den Sinnen zurückziehen sollten, um über denselben nachzudenken: woher der Lobspruch eines großen Philo­sophen war: der versteht die Meditationen des Renatus. Da nun während dieser Zeiten oftmals Vico und her Don Paolo Doria bei Herrn Caravita, dessen Haus ein Sammelplatz der Gelehrten war, verkehrte, war dieser gleich treffliche Edelmann und Philosoph der erste, mit welchem Vico anfangen konnte, über Metaphysik zu reden: von demaber, was Doria als erhaben, Groß und neu in Renatus bewunderte, bemerkte Vico, daß es alt und gemein bei den Platonikern war. Aus den Erörterungen des Doria indeß gewahrte er einen Geist welcher häufig glänzende Lichter Platonischer Göttlichkeit ausblitzte: woher von jener Zeit an sie in einer treuen und adelichen Freundschaft verbunden blieben.



Bis auf diese Zeiten bewunderte Vico zween allein als einzig vor allen übrigen Geistern, welche waren Plato und Tacitus; denn mit einem unvergleichlich metaphysischem Tacte betrachtet Tacitus den Menschen, wie er ist, Plato, wie er seyn soll: und wie Plato nach jener universalem Wissenschaft sich über alle Theile der Sittlichkeit verbreitet, welche den Weisen der Idee vollenden; so steigt Tacitus zu allen Anschlägen des Vortheils hernieder, damit zwischen den unendlichen regellosen Resul­taten der Bosheit und |30| des Glückes sicher geleitet werde der Weise des Lebens. Und aus diesem Gesichtspuncte war die Bewunderung dieser zween großen Schriftsteller in Vico ein Vorbild jenes Planes, vermöge dessen er späterhin eine ewige ideale Geschichte begründete, nach welcher abliefe die allgemeine Geschichte aller Zeiten, indem zu Folge gewisser ewigen Eigenthümlichkeiten der bürgerlichen Dinge die Erhebung, die Zustande und der Verfall aller Nationen herbeigeführt würden: womit denn ausgeprägt würde zugleich der Weise in geheimer Weisheit, wie es der des Plato ist, als in gemeiner Weisheit, wie es der ist des Tacitus. Als. ihm endlich bekannt wurde Franz Baco, Herr.von Verulamio, ein Mann von eben so unvergleichlicher Kunde in vulgärer als in geheimer Weisheit, wie er denn zugleich universalen abgiebt in Wissenschaft und in Leben, als seltener Philosoph wie als großer Staatsminister von England: faßte er selbigen, mit Beiseitelassung dessen übriger Bücher, in denen er villeicht gleich und besseres Stoffe gefunden habe würde, in den de Augmentis Scientiarum auf in folgendem Lichte, daß wie Plato der Erste ist im Wissen der Griechen; einen Tacitus die Grieche nicht haben; so ein Baco den Lateinern wie den Griechen fehlet: wie denn selbiger als ein enzelner Mann einsah, was in der wissenschaftliche Welt mangele, das da erfunden werden müsse und gefördert werden müsse; in dem aber, was sie hat, von wievielen und welchen Unvollkommenheiten es müsse gereinigt werden: und welcher ohne Vorliebe weder für eine persönliche Ansicht, noch für eine eigenthümliche Secte, mit Ausnahme des Wenigen, was gegen die catholische Religion anstößt, allen Fächern Gerechtigkeit widerfahren läßt, und allen in der Absicht, daß jede ihrer Seits beitrage zu dem Ganzen, so die allgemeine Republik der Wissenschaften ausmacht. Und indem er sich diese drei besonderen Schriftsteller beständig vor Augen zu habenk beim Nachdenken und Schreiben vornahm, feilte er unabläßig an seinen Geistesentwürfen, welche denn zuletzt sein Werk de Universi juris uno Principio hervor­brachten.



Denn in seinen bei Eröffnung der Studien an der Königlichen Universität gehaltenen Reden schlug er immer den Weg ein, allgemeine Gegenstnde, die von der Metaphysik aus in die Erfahrung des bürgerlichen Daseyns einschlagen, vorzu­neh­men: und nach diesem Gesichtspuncte handelte er entweder von den  |31| Zwecken der Studien, wie in den erste sechs, oder von der Methode zu studieren, wie in der zweiten Abtheilung der sechsten und der ganzen siebendten: die drei ersten handeln ins besondere von den der menschlichen Natur angemessenen Zwecken, die zwo folgenden insonderheit von den politischen Zwecken, die sechste vom christlichen Zwecke.

Die erste, gesprochen am 18. October des Jahre 1699. fordert auf, daß wie die Kraft unseres göttlichen Geistes in allen ihren Richtungen auszubilden haben nach folgendem Vorwurfe: Suam ipsius cognitionem ad omnem doctrinarum orbem brevi absolvendum maximo cuique esse incitamento. Und beweiset «der menschliche Geist sey, nach gehörigem Verhältnisse betrachtet, der. Gott des Menschen, wie Gott die Seele des Alls ist;» sie thuet dar, «wie die wundervollen Gaben der Seele einzeln, sey es als Sinne, oder as Phantasie, oder Gedächtnis, oder Scharfsinn, oder Schlußvermögen mit göttlichen Kräften an Behendigkeit, Leichtigkeit, und Nachdruck, und zu ein und derselben Zeit die verschiedensten und vielfältigsten Erfolge bewirken: daß man findet, wie die Kinder als frei von verkehrten Neigungen und Lastern, bei drei oder vier Jahr spielend schon die vollständigen Wörterbücher ihrer Muttersprache gelernt haben: daß Socrates nicht so sehr die moralische Philosophie vom Himmel rief, als er selbst unseren Geist hinaufhob: und die, welche durch Erfindungen in den Himmel unter die Götter emporgehoben würden, der Geist eines jeden von uns sind: daß es seltsam sey, wenn es so viele Unwissende gibt, da wie der Rauch den Augen, der Gestank der Nase, so dem Geiste das Nicht wissen, das Getäuscht werden, das in Irrthum Verfallen zuwider sey: woher man auf's höchste tadeln müsse die Fahrläßigkeit, daß wir nicht in Allem wohlunterrichtet sind, bloß deswegen, weil wir es seyn nicht wollen; da wir durch bloßen wirksamen Willen, wie von Begeisterung hingerissen Dinge auszuführen vermögen, welche wir nach der That selbst bwundern, als nicht durch uns, sondern durch einen Gott geschehen.» Und darum schließet sie, «daß, wenn in wenigen Jahren ein Jüngling nicht den ganzen Kreis der Wissenschaften durchlaufen hat, dieß geschehen sey, entweder weil er nicht gewollt, oder, wenn er gewollt, es gekommen sey aus Mangelhaftigkeit der Lehrer, oder einer guten Ordnung im Studieren, oder weil das Ziel der Studien anderswohin gesetzt worden, als eine Art der Göttlichkeit unserer Seele auszubilden.»

|32| Die zweite, im Jahre 1700. vorgetragene Rede enthält, daß wir die Selle in den Tugenden unterweisen sollen, zu Folge der Wahrheiten des Geistes, nach folgendem Vorwurfe: Hostem hosti infensiorem infestioremque, quam stultum sibi, esse neminem. Und stellt selbige dieses Universum dar als eine gorße Gemeine, in welcher nach einem ewigen Gesetze Gott die Ungebildeten verurtheilt, einen Krieg gegen sich selbst zu führen, was so abgefaßt ist: Eius legis tot sunt digito omnipotenti perscripta capita, quot sunt rerum omnium naturae. Caput de homine recitemus. Homo mortali corpore, aeterno animo esto: ad duas res verum honestumque, sive adeo mihi uni, nascitor: mens verum falsumque dignoscito; sensus menti ne imponunto; ratio vitae auspicium, ductum, imperiumque habeto; cupiditates rationi parento: bonis animi artibus laudem sibi parato: virtute et constantia humanam felicitatem indipiscitor. Si quis stultus, sive per malam malitiam sive per luxum sive per ignaviam sive adeo per imprudentiam secus faxit, perduellionis reus ipse secum bellum gerito; und hier beschreibt sie tragisch diesen Krieg. Aus welcher Stelle offenbar zu ersehen ist, daß er von dieser Zeit an den Gedanken in der Seele bewegte, den er nachher ausführte, vom allgemeinen Rechte.






Die dritte Rede, gehalten im Jahr 1701, ist gleichsam ein practischer Anhang der zwo vorigen über folgenden Gedanken. A Litteraria Societate omnem malam fraudem abesse oportere, si vos vera, non simulata, solida, non vana, eruditione ornari studeatis. Und sie zeiget, daß in der Gelehrtenrepublik man leben muß mit Gerechtigkeit: und werden verurtheilt die willkührlichen Critiker, welche mit Unbilligkeit die Steuern dieses Schatzes eintreiben; die Starrköpfe der Secten, welche hindern, daß dieser Schatz anwachse; die Betrüger, welche dem Schatze der Wissenschaften ihre Beiträge unterschlagen.


Die vierte Rede, gehalten im Jahr 1704, stellt folgenden Inhalt auf: Si quis ex litterarum studiis maximas utilitates, easque semper cum honestate conjunctas, percipere velit, is gloriae, sive communi bono erudiatur. Sie ist gegen die falschen Gelehrten gerichtet, welche, bloß um des Vortheils willen studieren, |33| wodurch sie mehr sorgen, Gelehrte zu scheinen als zu seyn: und wenn sie den erzielten Vorteil erreicht haben, sich erniedrigen und die elendesten Ränke anwenden, um ferner in der Meinung für Gelehrte zu gelten. Vico hattet schon die Hälfte dieses Vortrags gesprochen, als Herr Don Felix Canezina Ulloa, Präsident des geistlichen Rathes, der Cato der Spanischen Minister, eintrat: zu desen Ehre er mit vieler Geistesgegenwart dem schon gesagten eine andere und kürzere Wendung gab, und es an das anknüpfte, was noch zu sagen war: eine Geistesgegenwart, dergleichen einer in Italienischer Zunge sich Clemens XI., als er Abbate in der Academie der Humristen war, zu Ehren des Cardinals d'Etrées, seines Beschützers bedient, und dadurch bei Innocenz XII. sein Glück zu machen begonnen, das ihn zur Pabstwürde emportrug.


In der fünften Rede, vorgetragen im Jahr 1705. wird aufgestellt. Respublicas tum maxime belli gloria inclytas, et rerum Imperio potentes, quum maxime litteris floruerunt. Was nachdrücklich mit triftigen Gründen bewiesen und sodann durch die folgende zusammen­hängende Reihe von Beispielen bestätigt wird. «In Assyrien standen die Chaldäer auf als die ersten Gelehrten der Welt, und es begründete sich dort die erste Monarchie: als Griechenland mehr denn in allen Zeiten zuvor durch Wissenschaft prangte, fiel die Monarchie Persiens unter Alexander: Rom gründete die Herrschaft der Welt auf den Ruinen von Carthago unter Scipio, welcher so vertraut war mit Philosophie, Beredtsamkeit und Poesie, als es die unnach­ahm­lichen Lustspiele des Terentius darthun, als welche er da zugleich mit seinem Freunde Lälius ausarbeitet, und da er sie unwürdig achtete, unter seinem großen Namen zu erschei­nen, bekannt werden ließ unter deß Namen, unter dem sie umgehen, der denn etwas von dem Seinigen hizuthun mogte: unstreitig basirte die römische Monarchie sich unter Augustus; zu dessen Zeit in Rom die ganze Weisheit Griechenland im Glanze der römischen Sprache widerstrahlte: das erlauchteste Königreich in Italien strahlte unter Theodorich durch den Rath der Cassiodore: mit Carl dem Großen stand das römische Reich in Deutschland auf; weil die an den Königshöfen des Abendlandes bereits erstorbenen Wissen­schaften an dem seinigen wieder aufzuleben begannen |34| in den Alcuinen. Homer bildete Alexan­dern, der ganz entbrannt war, sich in der Tapferkeit nach dem Beispiele des Achilles zu benehmen; und Julius Casar wurde zu großen Thaten geweckt durch das Beispiel wiederum Alexan­ders: so daß diese zween großen Feldherren, zwischen denen Niemand über den Vorrang zu entscheiden gewagt hat, Scholaren eines Helden Homers sind. Zween Cardinäle, beyde die größten Philosophen und Theologen, und einer außerdem ein großer Canzelredner, Ximenez und Richelieu, zeichneten die Grundlage jener der Spanischen, dieser der Französischen Monarchie. Der Türk hat ein großes Reich gegründet auf der Barbarei, aber durch den Beistand eines gewissen Sergius, gelehrten und ruchlosen christlichen Mönchs, welcher dem dummen Mahomet das Gesetz gab, auf welchem er es gründete: und während die Griechen, von Asien zuerst, und nachdem überall, in die Barbarei versunken waren, trieben die Araber die Metaphysik, die Mathematik, die Stern- die Arzneikunde, und durch dieses Gelehrtenwissen, wenn schon nicht von der gebildetsten Humanität, erweckten sie zu einem höchsten Eroberungsruhm die ganz barbarischen und rohen Almansor's; und dienten dem Türken ein Reich zu stiften, in welchem alle Wissenschaften verboten wurden: und hätte es nicht an den treulosen Christen, zuerst griechischen, hernachmals latei­nischen gelegen, die ihnen gleichwohl von Zeit zu Zeit Künste und Rathschläge des Krieges an die Hand gegeben, so würde ihr ungeheures Reich durch sich selber gestürzt worden seyn.»




In der sechsten, im Jahr 1707. gehaltenen Rede behandelt er folgenden von dem Zwecke der Studien, und der Ordnung im Studieren verbunden handelnden Vorwurf: Corruptae homi­num naturae cognitio ad universum ingenuarum artium scientiarumque absolvendum orbem invitat incitatque; ac rectum, facilem ac perpetuum in iis perdiscendis ordinem proponit, exponitque. Hier laßt er die Zuhörer in eine Betrachtung über sich gelbst eingehen, «daß der "Mensch zur Strafe der Sünde vom Menschen geschieden ist durch die Sprache, durch den Geist, und durch das Herz: durch die Sprache, als welche oft im Stiche läßt und oft verräth die Ideen, durch die der Mensch mit dem Menschen sich vereinigen mögte und nicht kann; durch den Geist, wegen der Abweichung der Meinungen, die aus der Verschiedenheit der sinnlichen Ge­schmacks­rich­tungen entspringen, in denen der Mensch |35| mit dem anderen Menschen nicht übereinstimmt; und endlich durch das Herz, wegen dessen Verderbniß nicht einmal die Ueberein­stimmung der Laster den Menschen mit dem Menschen vereint.» Woher er beweist, «daß die Strafe unserer Verberbniß gebessert werden müsse durch die Tugend, durch die Wissenschaft, durch die Beredtsamkeit: durch welche drei Dinge allein der Mensch dasselbe empfindet, was der andere Mensch.» Und aus jenem Gesichtspuncte nun wendet er sich zu dem Zwecke der Studien: aus jenem betrachtet er die Ordnung im Studieren; beweist, «daß wie die Sprachen das mächtigste Mittel gewesen, um die menschliche Geselligkeit zu begründen; so von den Sprachen anheben müssen die Studien; weil jene sämmtlich sich an das Gedächtniß halten, in welchem ganz besonders stark die Kindheit ist: das Kindesalter, schwach von Schlußvermögen, durch nichts anderes geregelt wird, als durch die Beispiele, welche, um zu ergreifen, aufgefaßt werden müssen mit Lebendigkeit der Phantasie; in der die Kindheit außerordentlich ist: daher die Kinder beschäftigt werden müssen mit Lesung sowohl der mythischen als der wahren Geschichte: das Alter der Kinder ist zum Nachdenken aufgelegt, aber es hat keinen Stoff zum Nachdenken: man schule sie für die Kunst eines richtigen Schlußvermögens durch die Wissenschaften der Maasse, welche Gedächtniß und Phantasie in Anspruch nehmen, und zugleich den körperlichen Wachs­thum ihrer Einbildungskraft in Zaum halten, die in ihrer Stärke die Mutter aller unserer Veirrungen und Leiden ist. In der ersten Jugend herrschen die Sinne vor, und reißen den reinen Geist mit sich: man benutze sie für die physischen Studien, welche zur Betrachtung des Alls der Körper führen, und der mathematischen bedürfen zur Kenntniß des Weltsystems: dann von den ungeheueren körperlich physchen Ideen und von den zarten der Linien und Zahlen aus bringe man sie dazu, das abstracte metaphysisch Unendliche zu begreifen in der Wissenschaft vom Seyenden und dem Einen, in welcher die Jünge ihren Geist erkennen lernend, dahin gebracht weren mögen, ihr Gemüth ins Auge zu fassen; und zu Folge ewiger Wahrheiten es verderbt sehen müssen, auf daß sie sich entschließen lernen, es auf natürliche Weise durch die Moral zu verbessern in einem Alter, wo sie schon einige Erfahrung gemacht, wie sehr die Leidenschaften schaden, als welche in der Kindheit am heftigsten sind: und wo sie erkennen mögen, daß natürlich die heidnische Moral nicht zureiche, um |36| die Philautie, oder die Selbstliebe zu sänftigen und zu bezähmen, und wenn sie in der Metaphysik erprobt, daß sie bestimmter das Unendliche fassen, als das Endliche, den Geist, als den Körper, Gott, als den Menschen, als welcher nicht kennet die Weisen, wie er sich bewege, wie er fühle, wie er erkenne; durch die Demüthigung des Verstandes willig gemacht werden, die offenbarte Theologie anzunehmen; zu Folge deren sie zur christlichen Moral herabkommen und so gereinigt endlich sich begeben können zur christlichen Rechts­gelahrt­heit.»
Von der Zeit der ersten Rede an, die erwähnt ist, sieht man theils aus jener, theils aus allen anderen folgenden, und mehr als aus allen aus dieser letzten, daß Vico einen so neuen wie bedeutenden Gedanken in der Seele bewegte, nämlich auf Ein Princip alles menschliche und göttliche Wissen zurückzuführen: und nicht alle bisher von.ihm behandelte waren davon gar entfernt. Daher er sich freute, diese Reden nicht an's Licht gegeben zu haben, weil er erachtete, .die Republik der Wissenschaften müsse nicht mit noch mehreren Büchern beschwert werden, da sie an sich schon vor der gewaltigen Masse derselben krankt, und müßten allein Bücher über bedeutende Entdeckungen und besonders nützliche Erfin­dun­gen in ihr auf den Plan gebracht werden. Als dagegen im Jahre 1708 die Königliche Universität beschlossen hatte, eine öffentliche feierliche Eröffnung der Studien zu veranstalten und dem Könige zu widmen, mit einer Rede, die in Gegenwart des Cardinal Grimani, Vicekönigs von Neapel gesprochen, und deßwegen in den Druck gegeben werden sollte; bot sich Vico eine glückliche Gelegenheit dar, um einen Vorwurf zu ersinnen, welcher eine neue und der Welt der Wissenschaften nützliche Entdeckung zu Tage förderte, die da ein Verlangen gewesen seyn würde, werth von Baco in seiner neuen Welt der Wissenschaften unter den übrigen aufgeführt zu werden «Er dreht sich um die Vor- und Nachtheile unserer Weise zu studieren in Vergleichung mit der der Alten hinsichtlich aller Zweige des Wissens: ferner, welche Nachtheile der unsrigen, und durch welche Mittel sie beseitigt werden könnten; und mit welchen Vortheilen der Alten, diejenigen, welche nicht können beseitigt werden, sich ausgleichen ließen; so daß eine vollständige Universität von heutzutage zum Beispiel ein einziger Plato wäre, trotz allem dem, was wir von den Alten uns freuen voraus zu haben; damit alles menschliche und göttliche Wissen, |37| überall ruhete auf Einem Geiste, und in allen seinen Theilen bestünde, so daß die Wissenschaften sich eine der anderen die Hand reichten, und keine der anderen zu einem Hindernisse würde.» Die Abhandlung kam noch dasselbe Jahr in Duodez heraus in der Druckerei von Felix Mosca. (Welcher Vorwurf in der That ein Vorbild des Werkes ist, das er hernachmals ausarbeitete, de Universi Juris uno Principio, von dem ein Anhang ist das andere, de Constantia Jurisprudentis.)

Und weil Vico immerhin im Auge hatte, sich um die Universität mit der Rechtswissenschaft auf anderem Wege verdient zu machen, als indem er sie den Jünglingen läse, verbreitete er sich in jener Rede viel über das Geheimniß der Gesetze der alten römischen Rechtsgelehrten: und gab einen Versuch eines Systemes der Rechtswissenschaft, die Gesetze, wenn auch privatrechtliche, nach dem Gesichtspuncte des römischen Staatsverfassungswesens auszulegen. Hinsichtlich welches Theiles Monsignor Vincenzo Vidania, Präfect der Königlichen Studien, ein Mann von vorzüglicher Gelehrsamkeit in den römischen Alterthümern, namentlich was die Gesetze anlangt, der damals in Barcelona war, in einer höchst ehrenvollen Dissertation ihn in dem angriff, daß Vico behauptet hatte, die alten römischen Rechtsgelehrten seyen alle Patricier gewesen; auf welche Vico damals privatim erwiederte, und nachmals öffentlich Genüge that mit seinem Werke de Unversi Juris u.s.w. an dessen Schlusse zu lesen ist die Dissertation des hochberühmten Vidania mit Vico's Gegeneinwendungen. Dagegen fand sich Herr Heinrich Brenkmann, hochgelahrter Rechtskundiger aus Holland, durch die von Vico in Hinsicht auf Rechtswissenschaft erörterten Gegenstände gar sehr befriedigt, und während er sich in Florenz aufhielt, um die Florentinischen Pandecten neu zu vergleichen, hatte er darüber ehrenvolle Unterredungen mit Herrn Antonio di Rinaldo, der sich von Neapel dorthin begeben, um den Rechtshandel eines vornehmen Neapolitaners zu führen. Die Herausgabe dieser Abhandlung, vermehrt mit dem, was sich in Gegenwart des Cardinals Vicekönig, um nicht die Zeit zu misbrauchen, welche die Fürsten zu Rathe halten müssen, nicht sagen ließ, ward Ursache, daß Herr Domenico d'Aulisio, erster Abendlector des Rechtes, ein Universalgeist in Sprachen und Wissenschaften, der bis dahin |38| Vico ungern bei der Universität gesehen (nicht durch Schuld desselben, sondern weil er ein Freund jener Gelehrten war, die gegen ihn auf der Seite des Capova gestanden in einem großen wissenschaftlichen Streite, der lange zuvor in Neapel entflammt worden, was hier nicht nöthig ist zu erzählen) eines Tags bei Gelegeneit einer öffentlichen Concurrenz über die Lehrstühle, Vico zu sich rief und ihn einlud, neben ihm Platz zu nehmen; wobei er ihm sagte, er habe jenes Büchlein gelesen (denn er selbst hatte wegen einer Streitigkeit über den Vortritt mit dem ersten Lector des canomschen Rechts den Eröffungen nicht beigewohnt, und erachte es für das Werk eines Mannes, der nicht in Registern herumwühle; von dem jede Seite Stoff bieten.könne, daß ein anderer weitläuftige Bände darüber schriebe: welche so schmeichelhafte Behandlung und so wohlwollende Urtheil von seiten eines Mannes, der sonst in seinem Benehmen vielmehr unfreundlich als nicht, und sehr sparsam mit Lobsprüchen war, Vico eine besondere Seelengröße desselben gegen ihn beurkunbete: so daß er von diesem Tage an mit ihm eine sehr enge Freundschaft anknüpfte, die er fortsetzte, so lange dieser große Gelehrte am Leben war.
Unterdeß erweckte sich Vico an Lesung des mehr sinnreichen und gelehrten als wahren Tractates Baco's von Verulamio de Sapientia Veterum, deren Principien weiter hinaus zu suchen, als in den Fabeln der Dichter, zu welchem Unternehmen ihn das Beispiel Platos bewog, der sich im Cratylus bemüht hatte, dieselben innerhalb der Ursprünge der griechischen Sprache aufzuspüren; und da ihm die Stimmung, in welcher er sich bereits befand, daß ihm die Etymologieen der Grammatiker zu misfallen begannen, Vorschub that, legte er sich darauf, ihre Spuren innerhalb der Ursprünge der lateinischen Sprache zu erforschen; sintemal unstreitig das Wissen der italienischen Secte viel früher in der Schule des Pythagoras geblüht, und tiefer gewesen, als dasjengie, welches nachher in Griechenland selbst keimt. Und von dem Worte Caelum, welches gleichermassen den Meissel bedeute, als den großen Luftkörper, schloß er, «ob nicht vielleicht die Aegyptier, bei denen Pythagoras Unterricht empfangen, angenommen haben mögten, daß das Werkzeug, mit welchem die Natur alles bearbeite, der Keil sey; und die Aegyptier, bei dieß mit ihren Piramyden hätten andeuten wollen; und denn daher die Lateiner die Natur genannt Ingenium, von dem eine Haupteigenschaft die Schärfe ist: so daß |39| die Natur alle Form forme und entforme mit dem Meissel er Luft: daß sie mit leichter Aushöhlung die Materie forme; sie entforme, indem sie ihren Meissiel hineintieft, kraft dessen die Luft alles verheeret; daß die Hand, welche dieses Werkkzeug bewege, der Aether sey, für dessen Seele von allen Jupiter gehalten worden: und die Lateiner die Luft genannt Anima, als Princip, woher das All Bewegung und Leben erhalte: über welches als das Weibliche als Männliches der Aether wirke, der in das Animalische eingetreten von den Lateinern genannt worden Animus; woher sich jene bekannte Unterscheidung lateinischer Eigen­thümlich­keit schreibet, anima vivimus, animo sentimus: so daß die anima oder die ins Blut eingetretene Luft im Menschen das Princip des Lebens wäre, der in die Nerven eingetretene Aether das Princip wäre der Empfindung: und nach jenem Verhältnisse, daß der Aether thätiger ist als die Luft, eben so die animalischen Geister beweglicher und behender wären als die Lebensgeister: und wie über die Anima der Animus wirkte, so über letzteren das wirkte, was den Lateinern genannt wird Mens, was so viel bedeutet als Gedanke; woher bei den Lateinern sich der Ausdruck Mens animi erhalten; und daß der Gedanke oder die Mens den Menscheu verliehen wäre von Jupiter, als welcher die Mens des Aethers ist. Wäre er nun also das wirkende Princip aller Dinge, so müßten es in der Natur Körperchen von piramydalischen Gestalten seyn: und wenigstens in der verbundene Aether Feuer.» Und nach diesen Grundsätzen hielt eines Tages in dem Hause des Herrn Don Luzio di Sangro Vico eine Unterredung mit Herrn Doria, «daß vielleicht bei jenen seltsamen Erscheinungen, welche die.Physiker im Magneten bewundern, sie nicht daran denken, daß sie ziemlich gemein sind am Feuer: unter den Phänomenen des Magnetes seyen drei die wunderbarsten, die Anziehung des Eisens, die Mittheilung der magnetischen Kraft an das Eisen, und die Hinneigung nach dem Pole: und nichts sey doch gewöhnlicher, als daß der Zunder im verhältniß­mäßigen Abstande Feuer und, wenn man ihn umschwingt, Flamme fängt, die uns das Licht mittheilt; und daß die Flamme sich nach der Scheitel ihres Horizontes hinrichtet: so daß, wenn der Magnet locker wäre, wie die Flamme, und die Flamme dicht wie der Magnet, dieser sich nicht nach dem Pole, sondern nach seinem Zenith hinrichten würde; und die Flamme sich richten würde nach dem Pole, nicht nach ihrem Scheitelpunct: wie es denn wäre, |40| wenn der Magnet sich deßwegen nach dem Pole neigte, weil dieß der höchste Theil des Horizones wäre, gegen den er sich hinnöthigen könnte? wie man offenbar abnehmen kann an Magneten, so an der Spitze etwas langer Nadeln angebracht sind: indem, während jene sich nach dem Pole neigen, man diese offenbar gezwungen sieht, sich nach dem Zenith emporzurichten: so daß vielleicht der Magnet, wenn er nach dieser Ansicht, von Reisenden an irgend einem Orte, wo er sich mehr als anderswo aufrichtete, genau beobachtet würde, das bestimmte Maas geben könnte von den Breiten der Länder, welches so emsig gesucht wird, um die Geographie zu ihrer Vollendung zu bringen.»
Dieser Gedanke gefiel Herrn Doria ausnehmend: woher Vico versuchte, ihn weiter zu führen zum Behufe der Arzneikunde: denn eben denselben Aegyptiern, welche die Natur durch die Piramyde andeuten, war eigenthümlich jene mechanische Arzneikunde des Erweiterten und Zusammen­gezogenen, die der hochgelahrte Prosper Alpinus mit äußerster Gelehrsamkeit und Belesenheit ausgeschmückt hat; und nicht minder sah Vico, daß kein Arzt Gebrauch gemacht von dem Warmen und dem Kalten, wie sie Cartesius beschreibt, daß das Kalte Bewegung von aussen anch Innen, das Ware umgekehrt Bewegung von innen nach außen: und darüber ein System der Arzneikunde zu begründen; «ob nicht vielleicht die hitzigen Fieber eine Bewegung von Luft seyen in den Venen vom Mittelpuncte des Herzens nach der Peripherie zu; welche mehr, als zum Wohl­befinden gut ist, die Durchmesser der an der nach Aussen zu liegenden Seite verstopften Blutgefäße erweitere; und dagegen die bösartigen Fieber eine Bewegung von Luft seyen in den Blutgefäßen von aussen nach innen, die da mehr, als zum Wohlbefinden dienlich ist, erweitere die Durchmesser der an der dem Inneren zuliegenden Seite zugestopften Gefäße: woher, indem dem Herzen, welches der Mittelpunct des belebten Körpers ist, die Luft mangelt, welche so sehr nöthig ist, es zu bewegen, als dienlich zum Wohlbefinden, die Bewegung des Herzens sich vermindere, und darüber das Blut gerinne, worinne hauptsächlich die acuten Fieber bestehen: und dieß jenes quid divini seye, welches nach Hippocrates Ausdruck diese Fieber verursacht. Darauf liefen aus der ganzen wahrscheinliche Vermuthungen hinaus: wie denn gleicher­maßen das Kalte und das Warme beitragen |41| zur Erzeugung der Dinge; das Kalte, zum Keimen der Getraidesaaten, und in den Aasen zu Erzeugung der Würmer; an feuchten und dunkelen Orten zu der anderer Geschöpfe; und das übermäßig Kalte ebenso als das Feuer Krebschäden erzeugt, in Schweden aber der Krebs mit Eise geheilt wird: darauf laufen hinaus in den bösartigen Fiebern die Symptome des kalten Anfühlens und der colliquativen Schweiße, welche eine große Ausweitung der absondernden Gefäße beweisen; in den hitzigen das feurige und rauhe Anfühlen, welches durch die Räuhe andeutet, daß die Gefäße nach außen zususammengeschrumpft und verengert seyen. Wie wenn bei den Lateinern die Gewohnheit, alle Krankheiten auf die eine Hauptgattung ruptum zurückzu­führen, daher entstanden, daß es eine eine alte Arzneykunde in Italien gegeben, welche erachtet, alle Krankheiten schrieben sich her von einem Fehler der vesten Theil, und führten endlich dazu, was die nämlichen Lateiner corruptum nennen?»

Auf den in jenem Büchlein, das er darüber hernachmals an's Licht gab, angeführten Gründen erhob sich sodann Vico diese Physik auf eine eigenthümliche Metaphysik zu begründen, und unter demselben Beistande der Ursprünge der lateinischem Sprache reinigte er die Puncte des Zeno von den veränderten Darstellungen des Aristoteles: «sowohl daß die Zenonischen Puncte die einzige Hypothese seyen, um von den abstracten Gegenständen zu den körperlichen hernieder zu steigen, so wie die Geometrie der einzige Weg ist, um auf wissenschaftlichem Wege von den körperlichen Dingen zu den abstracten Dingen zu gelangen, aus welchen die Körper bestehen, als daß, wenn der Punct erklärt wird als das, was keine Theile hat, was so viel heißt, als ein unendliches Princip der abstracten Aussonderung begründen, eben so wie der Punct, welcher ohne Ausdehnung ist, durch eine Excurrenz die Aussonderung der Linie bewirke, eine unendliche Substanz sey, die da gleichsam durch eine Excurrenz von sich selbst, was die Erschaffung wäre, den endlichen Dingen ihre Gestalt gäbe: und daß, wie Pythagoras deßhalb annimmt, die Welt bestehe aus Zahlen, als welche in bestimmter Weise abstracter sind denn die Linien, weil das Eine nicht Zahl ist, aber die Zahl erzeugt, und in jeder ungeraden Zahl untrennbarlich innen ist (woher Aristoteles sagte, die Wesenheiten seyen untheilbar gleich wie die Zahlen, weil sie zu theilen eben soviel ist, als sie zu zerstören: |42| eben so der Punct, welcher gleichmäßig bei ausgedehnten ungleichen Linen untersteht), (woher die Diagonale, mit der Seite des Quadrats zum Beispiel, welches außerdem incommensurable Linien sind, sich in denselben Puncten schneiden.) eine Hypothese sey von einer unausgedehnten Substanz, welche bei ungleichen Körpern ebenfalls unterstehe, und gleichmäßig sie trage.» Dieser Metaphysik würde als Gefolge auftreten so die Logik der Stoiker; in welcher sie sich übten, mittelst des Sorites zu schießen, welches eine ihnen eigenthümliche Weise zu argumentiren war beinahe in einer geometrischen Methode; als deren Physik, die da als Princip aller körperlichen Formen setzen würde den Keil, in jener Weise, daß die erste zusammen­gesetzte Figur, welche in der Geometrie erzeugt wird, das Dreieck ist; so wie die erste einfache ist der Kreis, Sinnbild der höchsten Vollendung Gottes: und so würde bequem daraus hervorgehen eine Physik der Aegyptier, welche die Natur als eine Piramyde darstellten, was ein vester Körper ist von vier. dreieckigen Vorderseiten: wie sich daran schließen würde die Aegyptische Arzneikunde des Erweiterten und des Zusammen­gezogenen: über welche er ein Büchlein von wenigen Bogen unter dem Titel de Aequilibrio Corporis Animantis an den sehr gelehrten Herrn Domenico von Aulizio schrieb, als nur irgend andere je über Gegenstände der Arzneikunde, und nicht minder darüber häufige Besprechungen hatte mit Herrn Lucantonio Porzio; womit er sich bei letzterem das höchste Zutrauen, verbunden mit einer engen Freundschaft erwarb, die er fortbewahrte bis zum Tode dieses letzten Italischen Philoso­phen aus der Schule des Galileo, der unter seinen Freunden oftmals zu sagen pflegte, daß ihn die von Vico durchgeführten Ideen, um seinen Ausdruck zu brauchen, in Subjection setzten. Indeß ward die Metaphysik zu Neapel 1710 bei Felix Mosca, in Duodez mit einer Zueignung an Herrn Don Paolo Doria besonders gedruckt und zwar das erste Buch, De Antiquissima Italorum Sapientia ex Linguae Latinae orignibus eruenda. Darüber entspann sich denn der Streit zwischen den Herrn Journalisten von Venedig, und dem Verfasser, über welchen zu Neapel ebenfalls in Duodez bei Mosca erschienen ist eine Erwiederung, im Jahr 1711. und eine Replik, 1712. Der Streit wurde übrigens von beyben Seiten sowohl ehrenvoll geführt, als mit vieler Anständigkeit beigelegt: Indeß war das Mißfallen |43| an den grammatischen Etymologieen, welches angefangen hatte, sich in Vico zu äußern, ein Anzeichen davon, wonach er weiterhin in den letzten Werken auffand die Ursprünge der Sprachen, gezogen aus dem Principien einer allen gemein­sa­men Natur; über welchem er aufstellt die Principien eines allgemeinen Etymologicon, um allen todten und lebenden Sprachen ihre Ursprünge anzuweisen: und das wenige Genügen an dem Buche des Verulamio, wo er sich bemüht, die Weisheit der Alten in den Fabeln der Dichter aufzusuchen, war ein anderes Zeichen davon, wonach Vico nicht minder in seinen letzten Werken andere Principien der Poesie, als die, welche die Griechen, die Lateiner, und die anderen seither angenommen haben, auffand; über welchen er aufstellt andere der Mytho­logie, nach denen die Mythen lediglich historische Bedeutungen von den ersten ältesten griechischen Urstaaten enthielten, und danach die ganze mythische Geschichte der heroischen Gemeinwesen auseinander setzt.


Kurz darauf ward er auf ehrenvolle Art von Herrn Don Adrian Caraffa, Herzog von Traetta, an dessen Bildung er viele Jahre Theil genommen hatte, aufgefordert, das Leben des Marschalls Antonio Caraffa, Dessen Oheims, darzustellen: und Vico, der seinen Geist zur Wahrhaftigkeit gebildet, nahm den Auftrag an; wie er denn sogleich von dem Herzog eine ungemeine Fülle von schätzbaren und aufrichtigen Nachrichten, die der Herzog aufbewahrte, darüber empfieng. Von der Zeit seiner täglichen Beschäftigungen blieb ihm übrigens bloß die Nacht übrig, dasselbe auszuarbeiten: er wendete zwei Jahre darauf; das eine, um aus jenen vielfach zerstreuten und untereinander gewirrten Nachrichten die Commentarien zu ordnen; das andere, um die Geschichte darnach anzulegen: während welcher ganzen Zeit er von den schmerzlichsten hypo­chon­drischen Krämpfen im linken Arme geplagt war; und dennoch, wie ihn jedermann beobachten konnte, des Abends währenb der ganzen Zeit, daß er daran schrieb, niemals früher etwas auf dem Tische hatte, als die Commentarien, wie wenn er in der Mutter­sprache schriebe, und dieß mitten unter dem Geräusche des Hauslebens, oft auch unter der Unterhaltung mit seinen Freunden: und so vollendete er dasselbe nach Maasgabe der Würde des Gegenstandes, der Verehrung gegen die Fürsten, und der Gerechtigkeit, welche man der Wahrheit schuldig ist. Das Werk kam prächtig gedruckt heraus bei Felix Mosca in einem ansehnlichen Quartbande |44| 1716. und war das erste Buch, das im Geschmack der Holländischeu Druckereien aus einer Neapolitanischen her­vor­gieng: und als es der Herzog dem Pabste Clemens XI. zugesandt, erhielt es durch ein Breve, in welchem er dafür dankte, den Lobspruch einer unsterblichen Historie: wie es überdieß Vico die Achtung und Freundschaft eines der berühmtesten Gelehrten Italiens, Herrn Johann Vincenz Gravina, verschaffte, mit welchem er einen engen Briefwechsel unterehielt, bis derselbe starb.
Bei der Vorbereitung zum Abfassen dieser Lebens­geschichte, sah sich Vico gemüßigt, Hugo Grotius de Jure Belli et Pacis zu lesen. Und hier fand er einen vierten Schriftsteller, welchen er den drei übrigen, die er sich zum Muster genommen, beizugessellen hatte: denn durch die gemeine Weisheit Homers schmücket Plato vielmehr aus, als er sie bildet, seine geheime: Tacitus streut seine Metaphyfik, Moral und Politik zwischen die Facten ein, wie sie zuvor von den Zeiten zerstreut und verworren ohne System ihm zukommen: Baco siehet, daß alles menschliche und göttliche Wissen, das da vorhanden war, ergänzt werden müsse in dem, was es nicht hat, und verbessert in dem, was es hat: dagegen die Gesetze betretend, so hat er sich in seinen Canonones nicht gar sehr zum Allgemeinen des Städtewesens und zu dem Ablauf aller Zeiten, noch zu der Ausdehnung aller Völker, erhoben. Hugo Grotius aber bringt in ein System eines allgemeinen Rechtes die gesammte Philosophie und die Theologie nach beyden Teilen dieser letzten, so wohl der Sachgeschichte, theils der fabelhaften theils der gewissen, als der Geschichte der drei Sprachen, der Hebräischen, Griechischen und Lateinischen, als welches die drei gelehrten alten Sprachen sind, die uns durch die Hand der christlichen Religion zugekommen. Und noch vielmehr vertiefte er sich in dieses Werk des Grotius, als er, da selbiges neu gedruckt werden sollte, die Aufforderung erhielt, einige Anmerkungen zu selbigem abzufassen; was Vico unternahm mehr, als zu Grotius, zu Widerlegung derjenigen, so Gronovius über selben ge­schrie­ben; als welchen sie anhangen, mehr um den freien Verfassungen zu gefallen, denn um der Gerechtigkeit ihr Recht zu thun: auch hatte er bereits das erste Buch, so wie die Hälfte des zweyten durchgearbeitet: er sich fürder dessen enthielt durch die Betrachtung, daß es einem Catholiken von Religion nicht gebühre, das Werk eines ketzerischen Verfassers mit Anmerkungen auszustatten.
Bei diesen Studien, bei diesen Untersuchungen, bei diesen vier Schriftstellern, welche er vor anderen bewunderte, mit dem Verlangen, sie zum Behufe der catholischen Religion zu benutzen, sah endlich Vico ein, daß es noch in der Welt der Wissenschaften kein System gebe, in dem die beste Philosophie, wie es, untergeordnet der christlichen Religion, die Platonische ist, zusammen­stimmte mit einer Philologie, die da wissen­schaft­liche Nothwendigkeit brächte in ihre beiden Theile, welches sind die zwo. Geschichten, eine der, Sprachen, die andere der Sachen; dabei die Geschichte der Sachen ins Reine gebracht würde durch die der Sprachen, nach folgender Anlage, daß besagtes System auf eine freundschaftliche Weise vereinigte sowohl die Maximen der Weisen der Academieen, als die Lebensthaten der Weisen der Republiken: und mit dieser Erkenntniß entband sich gänzlich in der Seele Vico's dasjenige, was er gesucht in seiner Seele bei den ersten Auguralreden; und nur noch im Groben angedeutet hatte in der Abhandlung de nostri Temporis Studiorum Ratione, ein wenig jedoch schon in der Metaphysik. Bei einer öffentlichen feierlichen Eröffnung der Studien im Jahre 1719 stellte er nun folgenden Vorwurf auf: Omnis divinae atque humanae Eruditionis Elementa tria, Nosse, Velle, Posse: quorum Principium unum Mens; cuius oculus Ratio; cui aeterni veri lumen praebet Deus: und theilte den Vorwurf folgendermaßen: Nunc haec tria Elementa, quae tam existere et nostra esse, quam nos vivere certo scimus, una illa re de qua omnino dubitare non possumus, nimirum cogitatione, explicemus: quod quo facilius faciamus, hanc tractationem universam divido in partes tres: in quarum prima omnia scientiarum principia a Deo esse: in secunda, divinum lumen, sive aeternum verum per haec tria, quae proposuimus elementa omnes scientias permeare; easque omnes una arctissima complexione colligatas alias in alias dirigere, et cunctas ad Deum ipsarum principium, revocare: in tertia, quicquid usquam de divinae ac humanae eruditionis principiis scriptum dictumve sit, quod cum his principiis congruerit, verum, quod dissenserit, falsum esse demonstremus. Atque adeo de divinarum atque humanarum rerum notitia haec agam tria, de Origine |46| de Circulo, de Constantia; et ostendam, Origines, omnes a Deo provenire; Circulo ad Deum redire omnes; Constantia, omnes constare in Deo, omnesque eas ipsas praeter Deum tenebras esse et errores. Und sprach darüber eine Stunde, und länger.








Es schien einigen der Gegenstand, namentlich für den dritten Theil, mehr glänzend als fruchtbar: die da sagten, so weit habe sich Pico von Mirandola nicht anheischig gemacht, als er Conclusionem de omni Scibili zu vertheidigen versprochen: freilich, weil derselbe dabei den großen und wichtigsten Theil der Philologie unbeachtet ließ, als die hinsichtlich unzähliger Gegenstände der Religionen, Sprachen, Gesetze, Sitten, Dominien, Verkehre, Gewalten, Verfassungen, Stände und der­gleich­en, in ihren Anfängen mangelhaft, dunkel, unver­nünftig, unglaublich und wahrhaft aufgegeben ist, um auf wissen­schaft­liche Prinzipien zurückgeführt werden zu können. Woher Vico, um vor der Zeit darüber eine Idee zu geben, welche darthäte, es könne ein solches System zur Wirklichkeit gelangen, im Jahr 1720. einen Versuch davon ans Licht gab, welcher durch die Hände der Gelehrten Italiens und jenseits der Alpen gieng: über den etliche unvortheilhafte Urtheil fällten; da sie indeß dieselben nachher nicht aufrecht erhalten, als das Werk, geschmückt mit sehr ehrenvollen Urtheilen der gründlichsten Gelehrten, durch welche selbige es auf eine wirksame Weise lobten, herauskam; so brauchen dieselben hier nicht erwähnt zu werden. Herr Anton Savini, eine große Zierde Italiens, würdigte, ihm einige philologische Schwierigkeiten entgegen zu stellen, die er an ihn gelangen ließ mittelst eines Briefes an Herrn Franz Valetta, einen höchst gelehrten Mann und würdigen Erben der berühmten Vallet­tischen von Herrn Joseph, dessen Großvater, hinterlassenen Bibliothek; auf welche Vico höflich erwiederte in der Constantia philosophiae: andere philoso­phische der Herrn Ulrich Huber und Christian Thom­asius, Männer von nahmhafter Gelehrsam­keit in Deutschland, brachte ihm der Herr Freiherr Ludwig von Gemmingen zu; denen indeß er bereits Genüge gethan zu haben fand in demselben Werke, wie am Ende des Buches de Constantia Jurisprudentis ersehn werden kann.


Als das erste Buch unter dem Titel de Uno Universi Juris|47| Principio et Fine Uno in demselben Jahre 1720 ebenfalls aus der Druckerei von Felix Mosca in Quarto, in welchem er den ersten und zweyten Theil der Abhandlung beweiset, hervorge­treten war, kamen zu dem Ohren des Verfassers mündlich von Unbekannten geschehene, und andere von Jemand ebenfalls privatim erhobene Einwürfe; deren keiner das System erschütterte, sondern über unbedeutende Einzelheiten und größtentheils im Gefolg der alten Opinionen, gegen die das System begründet worden: welchen Gegnern Vico, um den Schein zu vermeiden, als ersänne er sich Feinde, damit er hernach sie angriffe, antwortete, ohne sie zu nennen, in dem Buche, so er nachlieferte, de Constantia Jurisprudentis; damit selbige, in besagter Weise unbekannt bleibend, wenn sie jemals das Werk in die Hände bekämen, ganz allein und im Stillen entnehmen mögten, es sey ihnen geantwortet worden. Es gieng hernach aus ebendenselben Typen des Mosca ebenfalls in Quarto das folgende Jahr 1721. der zweyte Band unter dem Titel de Constantia Jurisprudentis hervor; in welchen mehr ins Einzelne der dritte Theil der Abhandlung bewiesen wird; die in diesem Buche sich in Zween Theile theilt, der eine de Constantia Philosophiae, die andere de Constantia Philologiae: und als in diesem zweyten Theile einigen ein Capitel, folgendermassen überschrieben: Nova Scientia tentatur, wo unternommen wird, die Philologie auf wissenschaftliche Prinzipien zu bringen, misfiel; da sie freilich befanden, das von Vico in der dritten Abtheilung der Dissertation gegebene Versprechen sei in keinem Stücke nichtig gewesen, nicht allein von Seiten der Philosophie, sondern, was mehr war, selbst nicht von denen der Philologie; vielmehr seyen überdieß nach diesem Systeme viele und bedeutende Entdeckungen von ganz neuen und der Opinion aller Gelehrten aller Zeiten ganz unträum­baren Gegenständen gemacht worden; so erhielt das Werk keine andere Anklagen, als daß man es nicht verstehe. Dagegen bezeugten der Welt, daß es ganz trefflich verstanden werde, sehr gelehrte Männer der Stadt; welche es öffentlich billigten und mit Würde und Nachdruck lobten: deren Elogien in dem Werke selbst gelesen werden.


Während dieser Vorgänge ward ein Brief von Herrn Johann Clericus, an den Verfasser geschrieben, folgendes. Inhalts:
Accepi, Vir Clarissime, ante perpaucos dies ab Ephoro Illustr. Comitis ab Wildenstein opus tuum de Origine Juris et Philologiae, quod quum essem Ultraiecti, vix leviter evolvere potui. Coactus enim negotiis quibusdam Amstelo­damum redire, non satis mihi fuit temporis ut tam limpido fonte me proluere possem. Festinante tamen oculo vidi multa, et egregia, tum Philosophica, tum etiam Philologica, quae mihi occasionem praebebunt ostendendi nostris Septentrionalibus Eruditis, acumen atque eruditi­onem non minus apud Italicos inveniri, quam apud ipsos; immo vero doctiora et acutiora dici ab Italis, quam quae a frigidiorum orarum Incolis expectari queant. Cras vero Ultraiectum rediturus sum, ut illic perpaucas hebdomadas morer utque me opere tuo satiem in illo secessu, in quo minus, quam Amstelodami, interpellor. Quum mentem tuam probe adsequutus fuero, tum vero in Voluminis XVIII. Bibliotecae Antiquae et Hodiernae parte altera ostendam, quanti sit faciendum. Vale, Vir Clarissime, meque inter egregiae tuae Eruditionis justos aestimatores numerato. Dabam, festinanti manu, Amstelod. a. d. 8. Septembris MDCCXXII.





Um wieviel dieser Brief die Ehrenmänner, welche zu Gunsten des Werkes von Vico geurtheilet, erfreute, eben so sehr misbehagte er denen, so das Gegentheil davon gemeint hatten. Daher schmeichelten sie sich, das sey ein Privat­compli­ment des Clericus; wenn er aber sein öffentliches Unheil darüber in der Bibliothek ablegen würde, dann werde er so davon urteilen, als es ihnen von Rechtswegen schien; indem sie behaupteen, es sey unmöglich, daß bei Gelegenheit dieses Werkes von Vico Clericus werde die Palinodie von dem singen wollen, was er beinahe fünfzig Jahre immer wiederholt, daß nämlich in Italien keine Werke gearbeitet würden, die von Seiten des Geistes und der Gelehrsamkeit mit denen verglichen werden könnten, so jenseit der Alpen herauskämen. Vico indeß, um der Welt zu beweisen, daß er allerdings die Achtung ausgezeichneter Männer hochhielt, aber sie keineswegs zum Zweck und Ziel seiner Arbeiten machte, las beyde Gedichte Homers, nach dem Gesichtspuncte seiner Grundzüge der Philologie, und nach gewissen mythologischen Canons, die er darnach abgefaßt, stellt er sie dar in einem anderen Gesichts­puncte, als der, aus welchem sie bis jetzt angesehen worden, nämlich, daß dieselben seyen zwo auf eine göttliche Weise nach zwey Subjecten componirte Gruppen |49| griechischer Historien der dunkeln und der heroischen Zeit nach der Eintheilung des Varro: welche Homerische Lectionen zusammen mit den Canons er ebenfalls in Mosca's Verlage in Quarto das folgende Jahr 1712. unter folgendem Titel an's Licht gab: Jo. Baptistae Vici Notae in duos Libros, Alterum de Universi Juris Principio, Alterum de Constantia Jurisprudentis.



Kurz darauf wurde der erste Frühlehrstuhl der Rechte, welcher nach dem nachmittägigen folgt, mit einem Gehalte von jährlich 600 Scudi, ledig: und Vico zu der Hoffnung erweckt, selbigen zu erlangen; durch die erwähnten Verdienste, vorzüglich im Fache der Rechtswissen­schaft, die er ja sich dadurch gegen seine Universität erworben, (auf der er übrigens der älteste unter allen in Betreff des Lehrstuhles ist, den er inne hat: als welchen allein Er inne hat durch Intestation Carls II., während die anderen alle die ihrigen inne haben durch frischere Intestationen); und ein Vertrauen auf das Leben, welches er in seinem Vaterlande geführt, wo er mit seinen Geisteswerken alle geehrt, vielen geholfen und keinem geschadet. Als am Tage zuvor, wie es Gebrauch ist, das Digestum vetus, aus welchem jenes Mal die Gesetze geloost werden sollten, aufgeschlagen war, erhielt er zum Loose diese drei, das eine unter dem Titel de Rei vindicatione, ein zweytes über den Titel de Peculio, und das dritte war das erste Gesetz unter dem Titel de Praescriptis Verbis: weil nun alle drei überreiche Texte waren, bat Vico Monsignor Vidania, Präfecten der Studien, um ihm die Fertigkeit seiner Gaben zu Anstellung jener Proben darzuthun, wiewohl er nie Jurisprudenz vorgetragen, um die Ehre, ihm eine der drei Stellen zu bestimmen, über welche er nach vierundzwanzig Stunden die Vorlesung halten sollte: da aber der Prafect dafür sich entschuldigte, wählte er sich das letzte Gesetz, und gab als Grund an, daß es von Papinianus war, einem vor allen andern mit den tiefsten Einsichten begabten Rechtsgelehrten; es war dasselbe aus der Materie von den Definitionen der Namen der Gesetze, in welcher sich mit gehöriger Geschicklichkeit zu benehmen die schwierigste Aufgabe in der Rechtswissenschaft ist: wo er voraussehen konnte, daß derjenige ein kühner Unwissender gewesen seyn würde, welcher versucht hätte ihn zu verleumden, daß er sich dieses Gesetz erwählt: |50| weil dieß so viel gewesen seyn würde, als ihn tadeln, daß er sich einen so schwierigen Stoff auserlesen: so daß Cujacius, wenn er Namen für die Gesetze veststellt, mit Recht den Ton hebt und sagt, es sollen alle kommen, um von ihm .zu lernen, wie er in den Parerga zu dem Titel der Digesten de Codicillis thut; und wegen sonst keiner Ursache den Papinianus für den Ersten der römischen Rechtsgelehrten hält, als weil keiner besser als er erkläre, und keiner in größerer Menge und bessere Definitionen in die Jurisprudenz gebracht.




Es hatten die Mitbewerber auf viererlei ihre Hoffnungen gesetzt, woran gleichsam als an Klippen Vico scheitern sollte. Alle, von der inneren Achtung geleitet, die sie gegen ihn fühlten, glaubten zuverläßig, er müsse eine prächtige und lange Vorrede von seinen Verdiensten gegen die Universität an­bringen: Einige, so begriffen, was er hätte thun können, prophezeiten, daß er über den Text handeln werde nach seinen Principien des Allgemeinen Rechtes; womit er zum Unwillen der Zuhörerschaft die über die Stellenbewerbung in der Rechts­wissen­schaft aufgestellten Gesetze würde gebrochen haben: die Mehrsten, welche für Meister der Facultät nur diejenigen erachten, so dieselbe den Jünglingen lehren, schmeicheltet sich, entweder, daß da es ein Gesetz war, über welches Hottomann sich mit vieler Gelehrsamkeit vernehmen lassen, er mit Hottomann dabei seine ganze Parade machen würde; oder, daß, da bei diesem Gesetze Faber alle die ersten Lichter unter den Auslegern angegriffen, und hernachmals keiner auf­getreten, welcher Faber geantwortet hätte, Vico die Vorlesung mit Faber anfüllen und ihn nicht bekämpft haben würde. Aber Vico's Vorlesung fiel ganz gegen ihre Erwartung aus: denn er machte den Eingang derselben mit einer kurzen, ernsten und rührenden Anrufung: las unmittelbar den Anfang des Gesetzes vor, auf den, mit Ausschluß der anderen Paragraphen desselben, er seine Vorlesung beschränkte: und nachdem er es auf seinen Hauptinhalt zurückgeführt und eingetheilt, legte er unmittelbar darauf in einer bei dergleichen Proben eben so unerhörten als bei den römischen Rechtsgelehrten, bei denen es ja überall wiederhalle Ait lex, Ait Senatusconsultum, Ait Praetor, gewöhnlicher Weise nach einer ähnlichen Formel Ait Jurisconsultus, die Worte des Gesetzes aus, eines nach dem anderen für sich, |51| um jener Anklage zu begegnen, welche zu häufigen Malen bei dergleichen Concursen vernommen wird, daß er in irgend einem Stücke vom Texte abgeschweift wäre; denn es würde in der That einer ein boshafter Ignorant gewesen seyn, welcher dessen Werth hätte schmälern wollen, daß er es über einen Anfang des Titels thun gekonnt: denn es sind keineswegs die Gesetze in den Pandecten nach irgend einer scholastischen Methode der Institutionen geordnet, und wie in jenem Anfang Papinianus angeführt worden, konnte eben so gut ein anderer Rechtsgelehrter angeführt werden, welcher mit anderen Worten und anderen Gedanken die Definition der actio gegeben hätte, von der dort gehandelt wird. Von der Auslegung Der Worte sodann zieht er den Sinn der Papini­anischen Erklärung aus, erläutert sie durch Cujacius; beweist endlich ihre Gleichförmigkeit mit der der Griechischen Ausleger. Unmittelbar nachher wendet er sich gegen Faber, und zeigt, mit welchen leichtfertigen, oder miswilligen, oder eitelen Gründen er tadelt Accursius, sodann Paolo di Castro, sodann die ultramontanen alten Ausleger, alsdann Andreas Alciatus; und da er vorher in der Reihe der von Faber Getadelten Hotomann dem Cujacius vorgesetzt, vergaß er in der Folge Hottomann, und gieng nach Alciatus an die Vertheidigung des Cujacius: als er aber dessen inne geworden, schaltete er folgende Worte ein: Sed memoria lapsus Cujacium Hottomano praeverti: at mox Cujacio absoluto Hottomannum a Fabro vidicabimus: so zuverläßig war es gewesen, daß er seine Hoffnungen darauf gesetzt, mit Hottomanns Kalbe zu pflügen! In dem Augenblicke endlich, da er auf die Vertheidigung Hottomanns gekommen war, endigte die Stunde der Vorlesung.


Er hatte dieselbe bis zu fünf Uhr in der vorhergehenden Nacht unter Gesprächen mit Freunden und unter dem Getöse seiner Kinder ausgedacht, wie er immer gewohnt ist, entweder zu lesen, oder zu schreiben oder zu speculiren: brachte die Vorlesung auf Hauptstücke, die sich auf einen Bogen beschränkten, und trug sie vor mit solcher Leichtigkeit, als wenn er während seines ganzen Lebens nichts anderes gelehrt hätte, mit solcher Redefülle, daß ein anderer darüber zwo Stunden würde zugebracht haben, in der blühendsten Auswahl juristischer Sprachgebräuche aus der gebildetsten Rechts­wissen­schaft, und selbst mit den griechischen Kunst­aus­drücken; und wo irgend ein scholastischer nöthig war, gab er ihn lieber griechisch |52| als barbarisch: ein einzigesmal stockte er ein wenig wegen der Schwierigkeit des Wortes progegam­menwn aber bald fügte er hinzu: ne miremini, me substitisse, ipsa enim verbi me remorata est; so daß Vielen jene augenblickliche Verwirrung ganz mit Fleiß angenommen zu seyn schien, weil er sich mit einem anderen so eigenthümlichen als zierlichen griechischen Ausdrucke wieder zurecht geholfen. Den Tag darauf führte er sie aus, wie er sie gehalten, und vertheilte Exemplare davon, unter anderen Herrn Don Domenico Caravita, erstem Advocaten der hiesigen höchsten Tribunale, sehr würdigem Sohne des Herrn Don Niccolo, welcher nicht hatte beiwohnen können.


Vico hatte erachtet, zu dieser Bewerbung einzig und allein seine Verdienste und die Probevorlesung, durch deren allgemeinen Beyfall er sich zu einiger Hoffnung auf Erlangung des Lehrstuhles veranlaßt sah, gelten machen zu dürfen: als er von dem unglücklichen Ausgange — wie er in der That es war auch für die Person derjenigen, welche unmittelbar für diesen Lehrstuhl graduirt worden — da es unfein, oder hoffärtig erschienen, daß er nicht deßhalb umher gelaufen, nicht geflehet, und die anderen würdigen Bewerberpflichten gethan, in Kenntniß gesetzt, auf den Rath und das Ansehen Herrn Don Domenico Caravita, eines weisen und ihm höchst wohl­wol­lenden Mannes, der ihm zeigte, es sey an ihm, sich herauszu­ziehen, mit Seelengröße die Anzeige machte, daß er auf das Nachsuchen der Stelle Verzicht leiste.
Dieß Misgeschick Vico's, über welchem er verzweifelte, für die Zukunft jemals eine würdigere Stelle in seinem Vaterlande zu erhalten, ward aufgewogen durch das Urtheil Herrn Johanns Clericus: welcher, als hätte er die von einigen seinem Werke gemachten Anklagen gehört, also im zweiten Theile des XIII. Bandes der alten und neuen Bibliothek bei Artikel 8. mit diesen wörtlich aus dem Französischen übersetzten Worten für diejenigen, welche sagten, es sey unverständlich, im Allgemei­nen urtheilt: «daß das Werk voll sey von verborgenen Materien, von sehr mannichfaltigen Betrachtungen, geschrie­ben in einem sehr gedrängten Style; daß unzählige Stellen ziemlich lange Auszüge bedürfen würden; daß es durchgeführt ist nach mathematischer Methode, welche aus wenigen Grundsätzen eine Unendlichkeit von |53| Folgerungen zieht: daß man es mit Aufmerksamkeit durchlesen muß, ohne Unterbrechung von vorn bis zu Ende, und sich gewöhnen an dessen Ideen und Styl: daß, wenn so die Leser über selbiges nachdenken, sie, je weiter sie vordringen, viele Entdeckungen und interessante Bemerkungen außer ihrer Erwartung finden werden.» In Hinsicht dessen, von welcher Seite der dritte Theil der Abhandlung , so weit er die Philosophie angeht, so vielen Lärm erregte, äußert er sich folgendermassen: «Alles, was zu anderen Malen gesagt worden über die Principien der göttlichen und menschlichen Wissenschaft, so weit es sich gleichförmig erfindet mit dem, was im vorhergehenden Buche geschrieben worden, ist kraft Nothwendigkeit wahr». So weit es die Philologie angeht, urtheilet er also darüber: «Der Verfasser gibt uns in einer Übersicht die Hauptepochen seit der Sündfluth bis auf die Zeit, wo Hannibal den Krieg nach Italien brachte: Denn er handelt in dem ganzen Körper des Buchs über verschiedene Erscheinungen, die in diesem Zeitraume erfolgten, und macht viele philologische Bemerkungen über eine große Zahl von Materien, indem er eine Menge gemeiner Irrthümer rüget, um welche sich auch die einsichtsvollsten Menschen nicht im geringten bekümmert:» Und endlich schließet er überhaupt: «Man findet darinnen eine fortlaufend Mischung von philo­so­phischen juristischen und philologischen Materien: wie denn Herr Vico sich ins besondere auf diese drei Wissenschaften verlegt, und dieselben wohl ergründet hat, wie alle diejenigen, so dessen Werke lesen, darüber einstimmen werden. Zwischen diesen drei Wissenschaften besteht ein so starkes Band, daß keiner sich rühmen kann, in sie eingedrungen zu seyn, und eine derselben in ihrer ganzen Tiefe zu kennen, ohne zugleich eine umfassende Kenntniß der anderen zu besitzen. Daher finden sich am Ende des Bandes die Elogien, welche die Gelehrten Italiens diesem Werke gegeben haben, aus denen man entnehmen kann, daß sie dem Verfasser gelten als einem Hochverständigen in der Metaphysik, dem Recht und der Philologie, und seinem Werke als einem Originale voller wichtiger Entdeckungen».



Aber nicht anderswoher ist offen zu entnehmen, daß Vico geboren ist für den Ruhm des Vaterlandes und folglich Italiens — als wo, und nicht aus Marocco gebürtig, er zum Gelehrten reifte — als daß nach diesem Streiche eines ungünstigen Schicksals, |54| auf welchem jeder andere allen Wissenschaften entsagt, wo nicht bereut haben würde, sie jemals geübt zu haben, er sich durchaus nicht abhalten ließ, andere Werke auszuarbeiten, wie er wirklich bereits ein in zwey Bücher getheiltes ausgearbeitet, das zween tüchtige Quartbände ausgemacht haben würde: in deren erstem er aufsuchte die Principien des natürlichen Rechtes der Völker innerhalb deren der Humanität der Nationen, auf dem Wege der Unwahr­scheinlich­keiten, Ungereimtheiten, und Unmöglich­keiten alles dessen, was darüber die anderen früher mehr ersonnen als begründet hatten: zu Folge dessen er im zweyten ausein­ander­setzte die Erzeugung der menschlichen Sitten nach einer gewissen vernunftmäßigeu Zeitrechnung in der dunkeln und in der mythischen Zeit der Griechen, von denen wir alles haben, was wir haben über die heidnischen Alterthümer. Und schon war das Werk durchgesehen worden von Herrn Don Julius Forvo, einem sehr gelehrten Theologen der Neapoli­tanischen Kirche; als er in Erwägung, daß dieses negative Beweis­ver­fahren wie viel es auch Auffsehen macht für die Phantasie, dennoch höchst unwillkommen ist für den Verstand, weil sich durch selbiges die menschliche Seele um nichts weiter bildet; und von der anderen Seite durch einen Streich ungünstigen Schicksales in die Verlegenheit versetzt, es nicht drucken lassen zu können, obschon er durch den eignen Ehrenpunct nur zu sehr zu dessen Herausgabe verpflichtet wurde, da er gerade die Bekanntmachung versprochen hatte; seinen ganzen Geist zu einer scharfen Meditation zusammen nahm, um dafür eine positive, und somit strengere, und daher nicht minder auch wirksamere Methode aufzufinden.

So gab er denn am Ende des Jahre 1725 zu Neapel in der Officin des Felix Mosca ein Buch in Duodez heraus von nicht mehr als zwölf Bogen im Character eines kleinen Textes unter dem Titel: Grundzüge einer neuen Wissenschaft über die Natur der Nationen, nach welcher aufgefunden werden andere Grundzüge über das natürliche Recht der Völker: und richtet es mit einem Elogium an die Universitäten Europa's. In diesem Werke findet er endlich ganz deutlich jenes Princip auf, welches er noch verworren und nicht mit gehöriger Unterscheidung in seinen vorhergehendern Werken eingesehen hatte. Denn er empfand eine unabweisbare auch menschliche Notwendigkeit, |55| die ersten Ursprünge dieser Wissenschaft aus den Prinzipien der heiligen Geschichte herzuholen; und bei der sowohl für die Philosophen als für die Philologen nachgewiesenen Unmög­lich­keit, deren Fortschrit­te bei den ersten Auctoren oder heid­nischen Nationen aufzufinden, machte er selbst einen weiteren, ja einen unbeschränkten Gebrauch von einem der Urteile, welche Herr Johann Clericus über das vorhergehende Werk gefällt hatte; daß indem er daselbst «bei den dort aufgestellten Hauptepochen von der allgemeinen Sündfluth bis zum zweyten punischen Kriege, über verschiedene Begeben­heiten, so in diesem Zeitraume erfolgt, sich verbreitet, viele philologische Bemerkungen über eine große Zahl von Materien macht, eine Menge gemeiner Irrthümer rügend, auf welche die einsichtigsten Leute durchaus nicht Acht gehabt» und enthüllt diese neue Wissenschaft kraft einer neuen Ars Critica, das Wahre über die Auctoren der Nationen selbst zu berutheilen innerhalb der gemeinen Ueberliefer­ungen der Völker, welche besagte gegründet, nach denen um ein Tausend von Jahren erst die Scriptoren aufgetreten, um welche sich gegenwärtig die übliche Critik bewegt: und mit der Fackel dieser neuen Ars Critica entdecket er ganz andere als die bisher in der Ein­bil­dung bestandenen Ursprünge beinahe aller Disciplinen, seyen es Wissenschaften oder Künste, welche nöthig sind, um nach lichtvollen Ideen und eigenthümlichen Ausdrücken über das natürliche Recht der Nationen zu forschen. Sofort bringt er deren Principien auf zween Theile, einen der Ideen, einen anderen der Sprachen, und nach jenem der Ideen enthüllet er andere historische Principien der Astronomie und Chronologie welche die beyden Augen der Geschichte sind, und sofort die Principien der allgemeinen Geschichte, die da mangelhaft gewesen bis jetzo. Er enthüllt andere historische Principien der Philosophie, und zuvörderst eine Metaphysik des menschlichen Geschlechtes, das heißt eine natürliche Theologie aller Nationen, nach welcher ein jedes Volk auf natürlichem Wege sich von sich selbst seine ihm eigenthümlichen Götter ersann kraft eines gewissen natürlichen Instinctes, welchen der Mensch hat von der Gottheit, durch deren Furcht die ersten Urheber der Nationen zur Vereinigung gebracht wurden mit bestimmten Frauen auf immerwährende Lebens­gesellschaft: welches die erste menschliche Gesellschaft der Ehen war; und wird dabei klar, daß ein und dasselbe gewesen das große Princip der Theologie der Heiden |56| und jenes der Poesie der theologischen Dichter, welche die erstens Dichter waren in der Welt, so wie jenes der ganzen heidnischen Humanität. Von dieser Metaphysik aus entwickelte er eine Moral, und sofort eine Politik, die allen Nationen gemein, über welche er die Rechts­gelahrt­heit des menschlichen Geschlechtes begründet, die da abweichet nach gewissen Secten der Zeiten, gleich wie die Nationen selbst die Idee ihrer Natur immer weiter entfalten; zu Folge welcher weiteren Entfaltung auch abweichen Regimente, als deren letzte Form er die Monarchie nachweist, in der endlich durch die Natur die Nationen zum Ausruhen kommen. So füllet er aus die große Leere, welche in ihren Principien die. allgemeine Geschichte gelassen, und anfängt mit Ninus von der Monarchie der Assyrier. Für den Theil von den Sprachen enthüllet er andere Principien der Poesie, des Gesanges und der Verse, und weiset nach, es seyen jene und diese erwachsen aus einer bei allen Urnationen gleichförmigen Notdurft der Natur. Zufolge dieser Principien enthüllet er andere Ursprünge der heroischen Abzeichen, welches eine lautlose Sprache aller Urnationen war in Versen die der Form articulirter Sprachen entbehrten (?). Sofort enthüllet er andere Principien der Wissen­schaft von der Wapenkunst, welche er als ein' und dieselben mit denen der Wissenschaft von den Medaillen erkennt: wo er als heroisch in einer fortgesetzten Souveränität von viertausend Jahren die Ursprünge der beyden Häuser von Österreich und Frankreich nachweiset. Unter den Erfolgen der Entdeckung der Ursprünge der Sprachen erkennet er gewisse allen gemeinsame Principien und zu einer Probe enthüllet er die wahren Ursachen der latei­nischen Sprache, und überläßt es den Gelehrten, nach ihrem Exempel dasselbe mit allen übrigen vorzunehmen: gibt eine Idee eines allen Ursprachen gemein­samen Etymologicon, eine andere eines anderen Etymologicon der Ausdrücke von fremdartigem Ursprunge: um endlich die Idee eines allgemeinen Etymologicon für die Wissenschaft oder zu einer eigenthümlichen Erörterung des natürlichen Rechtes der Völker nöthigen Sprache zu entwickeln. Mit sothanen Principien sowohl der Ideen als der Sprachen, als welches sagen will, mit sothaner Philosophie und Philologie des menschlichen Geschlechtes leget er dar eine ideale ewige Geschichte auf der Idee der Vorsehung, von der er durch das ganze Werk nachweist, |57| daß durch sie das natürliche Recht der Völker geordnet worden; nach welcher ewigen Geschichte in der Zeit ablaufen die sämmtlichen besonderen Geschichten der Nationen in ihren Entstehungen, Fortschritten, Zuständen, ihrem Verfall und Ende. So daß er von den Aegyptiern, welche über die Griechen spotteten, sie kennten das Alterthum nicht, indem sie ihnen sagten, sie seyen immer Kinder, zwey große Bruchstücke des Alterthums entlehnt und in Anwendung bringt, das eine, daß sie alle vor ihnen abgelaufenen Zeiten eintheilten in drei Epochen, eine des Götteralters, die zweyte des Heroenalters, die dritte des Alters der Menschen: das zweyte, daß in dem Verhältiß dieser Ordnung und Zahl der Abschnitte in eben sovieler Ausdehnung von Jahrhunderten vor ihnen drei Sprachen gesprochen worden, eine göttliche, stumm in Hiero­glyphen oder heilgen Characteren, eine zweyte symbolische, oder in Metaphern, dergleichen die heroische Rede ist, die dritte epistolische, in Redeweisen, über die man in den gegenwärtigen Erfahrnissen des Lebens über­ein­ge­kommen. Darauf zeiget er, die erste Epoche und Sprache seyen die gewesen in der Zeit der Familien, als die sonder Streit bei allen Nationen vor den Gemeinwesen existirt, und über denen nach Jedermanns Zuge­ständniß die Gemeinwesen sich erhoben; welche Familien die Väter als souveräne Fürsten regireten unter dem Regimente der Götter, alle menschlichen Angelegenheiten ordneten nach den göttlichen Auspicien; und setzet mit der größten Natür­lichkeit und Einfachheit die Historie derselben auseinander innerhalb der Göttermythen der Griechen, wobei er die Bemerkung macht, daß die Götter des Morgenlandes, die hernachmals von den Chaldäern an die Sterne versetzt worden, von den Phöniciern nach Griechenland gebracht, was seiner Nachweisung zufolge nach den Zeiten Homers geschehen, sich mit den Namen der griechischen Götter überein­stimmend fanden, um so aufge­nommen zu werden so wie, als sie hernachmals nach Latium gekommen, daselbst ebenfalls mit ihnen übereinstimmend gefunden wurden die Namen der lateinischen Götter. Sodann beweist er, daß dieser Zustand der Dinge, obwohl bei einen nach den anderen, gleichmäßig durchgegangen bei Lateinern, Griechen und Assyriern. Hiernächst beweiset er, die zweyte Epoche mit der zweyten, symbolischen Sprache haben Statt gefunden in der Zeit der ersten bürgerlichen Regimente, von denen er nachweist, sie seyen bestanden unter gewissen heroischen Königthümern oder regierenden Adelsständen, welche die ältesten Griechen genannt Herculische Geschlechter, die für göttliches Ursprunges gerechnet worden vor den ersten Pleben, als welche bei jenen für bestialisches Ursprunges gegolten: von deren Geschichte er |58| mit größter Leichtigkeit darthut, wie sie durch die Griechen vollständig dargestellt ist in dem Character ihres Thebanischen Hercules, der da wenigstens der größeste griechischer Heroen war, aus dessen Stamme unstreitig die Heracliden entsprungen, von welchen unter zween Königen das Spartanische Reich verwaltet wurde, das ohne Widerspruch ein aristocratisches war: und da gleichermaßen die Aegyptier und die Griechen bei jeder Nation einen Hercules angetroffen, wie unter den Lateinern deren Varro gar auf vierzig gezählt, zeiget er, daß nach den Göttern unter allen heidnischen Völkern die Heroen regiret, und nach einem großen Bruchwerk griechisches Alterthums, daß die Cureten sich aus Griechenland nach Creta, nach Saturnia oder Italien, und nach Asien ausgbreitet, decket er auf, daß dieß die lateinischen Quiriten gewesen, als deren eine Art waren die römischen Quiriten, das heißt mit Lanzen bewaffnete Männer in Versammlung, woher das Recht der Quiriten das Recht aller heroischen Geschlechter war. Und nachdem die Nichtigkeit der Fabel, das Gesetz der 12 Tafeln sey von Athen gekommen, dargethan, decket er auf, daß über drei bei den heroischen Geschlechtern von Latium einheimischen, in Rom einge­führten und beobachten, sodann aber auf jene Tafeln vestgehaltenen Rechten die Ursachen des römischen Regimentes, der römischen Tugend und Gerechtigkeit, im Frieden mit den Gesetzen, und im Kriege mit den Eroberungen Bestand ge­win­nen, dagegen die alte römische Geschichte nach den gegen­wär­tigen Ideen gelesen, noch unglaublicher sey als selbst die mythische der Griechen; mit welchen Leuchten er die wahren Principien der römischen Rechtsge­lehrsam­keit erhellet. Endlich beweiset er, die dritte Epoche der gemeinen Menschen und Sprachen falle die Zeiten der Ideen einer ganz entwickelten, und daher in allen als gleichförmig anerkannten menschlichen Natur: woher diese Natur Formen menschlicher Regimente nach sich gezogen, als welche er nachweist das volksfreie und das monarchische: von welcher Zeiten­secte die römischen Rechts­gelehr­ten unter den Kaisern waren. So daß er mit dem Beweise endet, die Monarchieen seyen die letzten Regimente, in denen endlich die Nationen sich ausleben: und daß nach dem Hirngespinste, die ersten Könige seyen Monarchen gewesen, wie es die jetzigen sind, die Gemeinwesen in der That gar nicht haben anheben, ja mit dem Truge und der Gewalt, wie man bisher sich eingebildet, die Nationen in der That durchaus nicht haben beginnen können. Nach diesen und anderen |59| geringeren, aber in großer Zahl gemachten Entdeckungen redet er über das natürliche Recht der Völker: nachweisend, zu welchen bestimmten Zeiten und in welchen bestimmten Weisen zum erstenmale die Sitten entsprungen, welche den gesammten Haushalt besagtes Rechtes bestreiten, als da sind Religionen, Sprachen, Dominien, Commercien, Stände, Herrschgewalten, Gesetze, Wapen, Gerichte, Kriege, Frieden, Bündnisse: und von diesen Zeiten und diesen Weisen her erläutert er die ewigen Eigenthümlichkeiten, welche beweisen, diese und keine andere sey ihre Natur oder Weise, und Zeit des Entstehens: dabei immer als wesentliche Verschiedenheiten darlegend zwischen den Hebräern und Heiden, daß jene von Anfang an sich erhoben und festgestanden auf den Ausübungen eines ewigen Gerechten; dagegen die heidnischen Nationen, als welche schlecht­hin die göttliche Vorsehung leitete, darüber in Abwei­chung gegangen seyen nach einer beharrlichen Gleich­förmig­keit in drei Arten von Rechten, entsprechend den drei Epochen und Sprachen der Aegyptier, das erste göttliche unter dem Regimente des wahren Gottes bei den Hebräern und der falschen Götter unter den Heiden; das zweyte heroische oder den in die Mitte zwischen Götter und Menschen gesetzten Heroen eigenthümliche; das dritte menschliche oder der ganz entwickelten und als gleich in allen erkannten menschlichen Natur, bei welchem letzten Rechte allein unter den Nationen die Philosophen aufkommen können, welche wissen sollen, es durch Vernunftschlüsse nach den Maximen eines ewigen Gerechten zu vollenden. Worinne einstimmig geirrt haben Grotius, Selden und Puffendorf: als welche aus Vorliebe zu einer Ars Critica über die Urheber der Völker selbst, nach der sie selbige für Weise in geheimer Weisheit hielten, nicht sahen, daß die Heiden geführt wurden durch die Vorsehung über die göttliche Majestät vulgärer Weisheit, aus welcher unter ihnen nach Verfluß von Jahrhunderten die geheime Weisheit her­vor­gieng, woher sie das natürliche Rechte der Nationen, so mit den Sitten ebenderselben erwachsen, verwechselt haben mit dem natürlichen Rechte der Philosophen, das jene in Kraft von Vernunfschlüssen eingesehen haben, ohne dabei nach irgend einem Vorrechte ein von Gott für seine wahre Verehrung vor allen anderen verlorenen Nationen auserwähltes Volk zu unterscheiden. Welcher Mangel derselben Ars Critica vorher die gelehrten Ausleger des römischen Rechtes mit sich gerissen, als die über der Fabel der von Athen gekommenen Gesetze gegen den |60| Geist derselben in die römische Rechts­wissen­schaft die Secten der Philosophen eindrängten, und ins­beson­dere die der Stoiker und Epicureer, über deren Principien nichts geht, das mehr entgegen wäre nicht nur denen der Jurisprudenz, sondern selbst aller Bürgerthüm­lichkeit, und sie nicht zu behandeln wußten nach den ihr eigenthümlichen Secten, welches die waren der Zeiten, wie offenbar bekennen es behandelt zu haben die römischen Rechtsgelehrten selbst.
Mit diesem Werke verschafft Vico zu dem Ruhme der catholischen Religion unserm Italien den Vortheil, dem protestantischen Holland, England und Deutschland nicht beneiden zu dürfen ihre drei Fürsten in dieser Wissenschaft, und daß in dieser unserer Zeit im Schooße der wahren Kirche entdeckt worden die Principien der gesammten menschlichen und göttlichen Gelehrsamkeit. Wegen weß allen das Buch das Glück gehabt, von Seiten seiner Eminenz des Cardinals Lorenzo Corsini, dem es zugeeignet ist, eine beifällige Aufnahme in folgendem Lobe nicht des letzten Ranges zu finden: ein Werk gewiß, welches von Seiten der Alterthümlichkeit der Sprache und Gründlichkeit der Gelehrsamkeit hinreicht, um kundbar zu machen, daß noch heutzutage in den Geistern Italiens nicht minder die angeborene ganz besondere Geschicklichkeit für Toscanische Beredsamekeit lebt, als der starke glückliche Muth zu neuen Productionen in den schwierigsten Wissensfächern. Woher ich mir darob mit diesem Ihrem geehrtesten Vaterlande Glück wünsche.